Libero, 2 luglio 2017
Ogni ora 19 immigrati: scoppiamo
La geografia economica, materia di studio ingiustamente poco frequentata, ci dice che l’Italia è una nazione di circa trecentomila chilometri quadrati (301.340 per l’esattezza) e oltre sessanta milioni di abitanti, cui andrebbe aggiunta una cifra imprecisata, che si presume ingente, di clandestini. Quindi secondo la scienza demografica l’Italia è una nazione densamente popolata, anche in considerazione del fatto che gli esperti ritengono che circa un terzo del nostro territorio (quello montuoso della catena appenninica) sia inospitale.
Spagna, Francia e Germania sono nazioni geograficamente molto più estese dell’Italia. La Spagna, ad esempio, dispone di un territorio di più di cinquecentomila chilometri quadrati, a fronte di 46 milioni di abitanti. Per non dire di paesi come l’Australia che ha un’estensione di oltre sette milioni di chilometri quadrati, un vero e proprio subcontinente, con appena 24 milioni di abitanti e norme in tema di immigrazione molto restrittive.
I demografi e gli studiosi di economia politica sono tutti concordi nel ritenere che c’è una sostenibilità sia socioeconomica che fisica nella crescita della popolazione. Qualche anno fa il professor Giovanni Sartori, dimenticato già prima della sua scomparsa, proprio per le sue idee controcorrente, pubblico un interessante saggio, dal titolo La terra scoppia, nel quale metteva in guardia dalla crescita incontrollata della popolazione, che porta con sé diminuzione delle risorse, conflitti sociali, crescita dell’inquinamento, impoverimento.
È vero che la Francia e la Gran Bretagna hanno molti più immigrati dell’Italia ma si dimentica quasi sempre di ricordare che si tratta di due ex imperi coloniali che per oltre un secolo si sono divisi l’Africa e regioni dell’Asia. E ancora oggi si giovano di quella che fu la loro posizione di dominio. Londra ha una ricca economia di servizi basata sul l’essere il terminale di tutto il Commonwealth, le compagnie minerarie britanniche agiscono in regime di quasi monopolio nelle loro ex colonie, la Francia ha in Africa una grande area di mercato per i suoi prodotti. La storia coloniale dell’Italia è stata modesta, inutile e tardiva. Gaetano Salvemini coniò per la Libia, quando ancora non erano stati scoperti i giacimenti di petrolio, la definizione di «scatolone di sabbia». E comunque, i leader politici della prima repubblica, Andreotti e Craxi, prima di tutti, lavorarono per stabilizzare politicamente le ex colonie italiane, a cominciare dagli aiuti che negli anni Settanta e Ottanta furono dati a Somalia ed Etiopia.
Il tema della sostenibilità demografica e soprattutto della tenuta economica e sociale di fronte all’ondata migratoria, sembra essere del tutto assente dal dibattito italiano. Eppure, si tratta di un tema serio sul quale decenni di studi di geografia economica hanno detto molto. La domanda centrale non è quella che si sintetizza nella banale opzione: siete a favore o contro gli immigrati? Ogni persona di buonsenso è naturalmente e giustamente portata ad aiutare altre persone in difficoltà. Ma la domanda corretta è un’altra: è possibile pensare di travasare l’Africa in Italia? È sostenibile una tale invasione? La risposta è non solo nei fatti e nella geografia e nella sostenibilità socioeconomica. Non a caso da tempo i Trattati internazionali hanno posto la decisiva distinzione tra rifugiati e immigrati economici. Dall’Italia i rimpatri di quei migranti che sono in una posizione irregolare perché non in linea con le norme internazionali, sono una cifra risibile, quasi inesistente. E questo è un punto su cui i partner europei e i paesi confinanti con l’Italia insistono molto. «Non fate quello che dovete», ci dicono.
L’approccio a questo tema deve essere, prima di tutto, culturale. Non si esagera nel ritenere che il rapporto fra globalizzazione e democrazia stia diventando uno snodo sempre più cruciale del nostro tempo fonte di non poche tensioni nelle società contemporanee. La globalizzazione arricchisce una ristretta élite ma per il resto esclude, limita, crea le masse dei non integrati e soprattutto rende opaco il potere. L’immigrazione incontrollata è parte di questo schema.
«Le decisioni stanno migrando dallo spazio tradizionale della democrazia», è questo il monito che all’inizio del nostro secolo è stato lanciato da Ralf Dahrendorf, aggiungendo che la democrazia non fosse applicabile «al di fuori dello Stato-Nazione, ai molti livelli internazionali o multinazionali in cui si forma oggi la decisione politica».
Le società occidentali, per secoli si sono alimentate della concezione greca e romana della res pubblica, si sono nutrite di un’idea classica che fonda insieme i valori di libertas e virtus, capaci di delimitare un recinto identitario che esalta il valore degli individui nella comunità, definendo quello che Giambattista Vico chiama l’idem sentire comune. E per questo che Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes), proponendo un’idea faustiana dell’Europa, culla della civiltà, rinviene il tratto della decadenza nel cosmopolitismo che è «l’opposto della vita». Un tema che affascina un intenso intellettuale come Antonio Gramsci che corregge il maxismo classico aprendo al popolonazione, richiamando il rispetto della volontà collettiva di una nazione.
La caduta del Muro di Berlino ha reso più evidente il mutamento del paradigma globale e la debolezza dell’Occidente. Non si esagera nell’affermare che gli ultimi decenni hanno certificato l’esistenza di un «declino occidentale». Un declino profondo che ha connotati sociali, economici e culturali e che si esprime soprattutto nella secolarizzazione delle nostre società. Avere consapevolezza della sostenibilità non significa assumere un atteggiamento catastrofista ma vuol dire avere davvero a cuore le sorti dei nostri popoli, partendo dal riconoscimento critico della realtà.