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 2017  luglio 01 Sabato calendario

Il caso Montesi

Il cadavere di Wilma Montesi, 21 anni, romana, fu trovato sulla spiaggia di Torvaianica la mattina dell’11 Aprile 1953. La vittima indossava una sottoveste, e non recava alcun segno di violenza, né sessuale né fisica. L’autopsia accertò la morte per annegamento; gli esami successivi esclusero la presenza di malattie o di sostanze tossiche. Era una morte singolare, ma non straordinaria. In quegli anni molte ragazze entravano in acqua semivestite: un malore, o un’onda anomala, potevano esser stati fatali. La polizia archiviò.
Due mesi più tardi cominciarono strane insinuazioni: Wilma avrebbe frequentato uomini politici, e la sua morte sarebbe avvenuta in circostanze ambigue. Un giornale satirico pubblicò una vignetta con un colombo che teneva nel becco una giarrettiera. L’allusione era chiarissima: il bersaglio era Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Esteri del governo De Gasperi, di cui era l’erede designato.
La DC era all’apice del suo successo, anche se indebolita dalla mancata approvazione di una riforma elettorale la cd legge truffa sostenuta dal suo leader. L’attacco a Piccioni poteva quindi avere due mandanti: uno esterno, il PCI, uscito malconcio dalle urne del dopoguerra, e uno interno, mirante a comprometterne la successione. Si apri così il secondo atto di quello che sarebbe stato il caso giudiziario più scandaloso del secolo. Esso catturò l’attenzione del Paese non per l’intreccio diabolico di un delitto perfetto, come sarebbe stato più tardi il caso Fenaroli, ma per la miscela esplosiva dei più torbidi componenti del moralismo giudiziario, sapientemente dosati in un’inchiesta sciagurata. I fatti si succedettero per un anno intero tra vari colpi di scena: un giornalista spregiudicato, Silvano Muto, trovò una testimone, Adriana Bisaccia, secondo la quale Wilma era morta per overdose durante un’orgia tenuta a Capocotta nell’abitazione del marchese Ugo Montagna, un faccendiere libertino amico di Piero Piccioni, figlio del ministro. 
Muto fu querelato, ritrattò e poi ritrattò la ritrattazione. Ma nel frattempo il bersaglio era stato individuato. Poi emerse un’altra super testimone, Anna Maria Moneta Caglio, aspirante attrice e ex amante del marchese. Qui la storia diventò grottesca. La Caglio indirizzò un memoriale al Papa e lo affidò a uno zio prete, che lo fece arrivare al ministro degli Interni, Fanfani, con l’intercessione di un gesuita. 
VERSIONI CONTRASTANTIIl documento confermava la versione di Muto e della Bisaccia, con l’aggiunta che Piccioni, responsabile della morte di Wilma, ne aveva portato il cadavere al mare per simulare una disgrazia. Chiunque avrebbe capito che si trattava di mitomanie calunniose: tra l’altro Piccioni aveva un alibi di ferro. Ma ormai la politica si era impadronita del caso e la stampa ci marciava, un po’ per assecondare i padrini ideologici e un po’ per aumentare la tiratura. Fanfani affidò l’inchiesta a un colonnello dei Carabinieri che stilò un rapporto a dir poco adattato. Emersero nuovi confidenti e testimoni, quasi tutti tristi figuri del sottobosco romano. Infine l’indagine fu riaperta, e affidata al giudice Raffaele Sepe, che si gettò in questa melma con un fanatismo moralizzatore e auto promozionale. 
L’istruttoria fu una vergogna della giustizia italiana: furono sentiti, e quel che è peggio si dette loro credito, avanzi di galera, di manicomio e di bordello. Fu trascurata qualsiasi ipotesi alternativa a quella, politicamente conveniente, prospettata da Muto e dalla Caglio; si allegarono agli atti persino lettere anonime. E alla fine Piccioni e Montagna furono arrestati. Il partito comunista si scatenò. L’on. Ingrao denunciò una questione morale coniando la formula che avrebbe ipnotizzato le anime belle nei decenni a seguire. Nenni, nella sua agitazione apocalittica, profetizzò contro la borghesia corrotta e moribonda; intanto Togliatti e L’Unità flagellavano quotidianamente i vizi privati e le pubbliche virtù del capitalismo clericale.
Il destino si vendicò di questa edificante prosopopea. Muto, nuovamente querelato per calunnia e diffamazione, era difeso dal Prof Giuseppe Sotgiu, principe del foro, presidente dell’amministrazione provinciale di Roma e alto esponente del PCI. L’illustre avvocato aveva un vizietto voyeuristico: frequentava un lupanare dove portava la moglie, assistendo compiaciuto alle sue prestazioni con minorenni. Una condotta (allora) penalmente irrilevante, ma poco edificante per un partito con attitudini eticamente pedagogiche. Il Pci affrontò l’imbarazzo con la consueta faccia tosta, ma il colpo fu duro, e qualcuno cominciò a dubitare che il caso Montesi fosse tutta una montatura o una bega partitica: nel frattempo Piccioni senior si era dimesso, e si profilava l’avvento di Amintore Fanfani. Ormai l’obiettivo era stato raggiunto.
IL DADO È TRATTO
Piero Piccioni e Ugo Montagna furono rinviati a giudizio con una ordinanza di 500 pagine, un monumento all’ignoranza, o alla malafede, o a entrambe. Il processo si tenne a Venezia, perché l’ambiente romano non assicurava la necessaria serenità. Il Pubblico Ministero, Palminteri, demolì e ridicolizzò le testimonianze e le pseudo prove raccolte a Roma, e censurò severamente gli errori e anche le falsità di quella stampa che si era prestata una simile infamia. Chiese l’assoluzione piena dei due imputati, e il 28 Maggio 1957 il Tribunale accolse la richiesta. Augusto Guerriero, forse il più autorevole commentatore di allora, fece un pubblico elogio della professionalità del Pm e del Presidente Tiberi, che avevano salvato l’onore della magistratura. Un onore compromesso dal giudice Sepe sul quale Guerriero scrisse: «Errori come questo i magistrati non ne devono fare. E se ne fanno, devono pagare. La magistratura è gelosissima della sua indipendenza, ma a condizione che se ne mostri degna. E se ne mostrerà degna solo se saprà fare giustizia su sé stessa e sui suoi membri, senza riguardi umani e di casta». Parole,come si vede, di allarmante attualità.
Il processo Montesi costituì il primo esempio nella storia giudiziaria italiana di connubio perverso tra stampa, toghe e politica, che vi videro ciò che vi volevano vedere, secondo i propri pregiudizi e le proprie convenienze: il sesso e la droga, associate alla figura del figlio di un potente ministro, avevano acceso la fantasia morbosa del pubblico e le speranze interessate del politico. E alcuni servitori dello Stato si prestarono, con spregiudicatezza maligna, a costruire un edificio di fango sul quale eressero la bizzarra figura del magistrato etico, che dopo trentacinque anni sarebbe riapparsa, in vesti più presentabili ma con effetti altrettanto funesti, nella babele di Tangentopoli.