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 2017  luglio 04 Martedì calendario

In morte di Paolo Villaggio

Fulvia Caprara per La Stampa
Di risultare simpatico non gli era mai importato nulla, eppure è diventato, per tutti gli italiani, come un parente richiesto e favorito. Di apparire colto e impegnato tantomeno, e invece con i suoi libri si potrebbero riempire scaffali. Di essere un grande attore l’aveva, forse, sempre saputo, ma per molto tempo nessuno aveva voluto ammetterlo.
Di queste contraddizioni è intessuta la vita di Paolo Villaggio, finita l’altra mattina a Roma, nella clinica Paideia, dove l’interprete, nato a Genova nel 1932, era ricoverato per complicazioni legate al diabete. Malattia, raccontano i figli, curata dal padre poco e male: «Ciao papà - ha scritto Elisabetta - ora sei libero di volare». Frase che allude a un tempo di costrizione fisica, consumato negli ultimi anni quando Villaggio, sofferente, aveva preso l’abitudine di pensare spesso alla fine: «Non mi piacciono gli anniversari - dichiarava in occasione dei 40 anni del Fantozzi cinematografico - li vivo come un anticipo dei funerali. Il Padreterno non ha pensato alla paura della morte, cioè al momento in cui ci verrà tolta la cosa più bella che ci ha dato».
Adesso l’attimo è arrivato, ma di Paolo Villaggio resta, vivissima, la sua maschera più famosa, quel ragioniere oppresso e spaurito in cui, tra risate e autocritica, l’Italia si è ritrovata: «All’inizio la gente rideva e basta, ma si sentiva aggredita, poi subentrò la gratitudine. Fantozzi è un «subitore», ha liberato tutti dalla spiacevole sensazione di sentirsi unici nel proprio essere sfigati. Era come una seduta terapeutica, gli spettatori seguivano le sue avventure e pensavano “forse è vero, siamo tutti così”».
Non a caso, una malinconia nemmeno tanto sottile ha segnato il cammino di Paolo Villaggio e dei suoi personaggi, non solo Fantozzi, ma anche il tracotante professor Kranz e il timido Fracchia, tutti alle prese con realtà indomabili, più grandi di loro, incubi di vite difficili che l’attore sapeva fronteggiare con sano cinismo e spirito goliardico.
Ed erano proprio queste le caratteristiche che non gli venivano perdonate, quelle che, dai primi exploit televisivi in Quelli della domenica, lo avevano reso da una parte idolo pop, dall’altra comico sottovalutato da critici e esperti: «I nostri grandi predicatori - osservava Villaggio - hanno sempre guardato con attenzione solo alle opere d’impegno, trascurando l’importanza della satira, senza nutrire nessun rispetto per la comicità, soprattutto per la sua funzione curativa». Il Leone alla carriera, ricevuto nel ’92 durante la Mostra del cinema di Venezia diretta da Gillo Pontecorvo, fu un «casus belli» che scatenò polemiche e schieramenti, eppure gli autori più importanti, Federico Fellini, Ermanno Olmi, Marco Ferreri avevano intuito eccome le capacità espressive dell’attore, affidandogli personaggi chiave nella Voce della luna, nel Segreto del bosco vecchio, in Non toccate la donna bianca.
Il punto è che Villaggio, amico di Fabrizio De Andrè dal ’48, forgiato dalle performance nei più noti cabaret di Milano e di Roma, cresciuto al fianco di colleghi immensi come Vittorio Gassmann, diretto dai padri del nostro cinema, Steno, Monicelli, Avati, Comencini, Salce, Wertmüller, si è sempre sottratto alle classificazioni facili, ai marchi di fabbrica, agli entourage del cinema che conta. Scelte che l’hanno danneggiato, perchè la libertà, si sa, ha sempre un costo altissimo: «Se rimango a galla è perchè ho fatto film comici di successo, se ho fatto film d’autore è grazie a quelli. Ad alcuni non piaccio... pazienza. Non si può piacere a tutti. Del resto a certe insofferenze sono abituato. O c’è qualcosa nel mio comportamento, nel mio aspetto fisico, che irrita qualcuno, oppure vengo capito in ritardo. Io, si capisce, sto per la seconda ipotesi».
Inventare un intero lessico e sintetizzare, in un’unica battuta («Per me La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca»), il rapporto storicamente tormentato tra gente comune e avanguardie intellettuali, non è cosa da tutti. Eppure Villaggio non se ne è mai vantato, anzi, preferiva, come nell’autobiografia sui generis intitolata Vita, morte e miracoli di un pezzo di m..., mettere in luce i lati negativi, le sconfitte più delle vittorie, le bravate più dei traguardi: «Il pezzo di m... del titolo sono io. Mi definisco spesso così, ma soltanto per essere accettato. Fin da ragazzo avevo problemi nei rapporti con gli altri, e forse per difesa diventavo aggressivo».
Se la chiave di tutto è in questa confessione, nella resistenza innata alla spinta buonista, Villaggio può essere contento. Ricordi, commenti, analisi adesso toccano ad altri (è in fase di edizione il documentario di Mario Sesti La voce di Fantozzi), ma la sua integrità, artistica e umana, è rimasta intatta fino alla fine. E a quella si deve l’affetto che anima l’esercito dei suoi estimatori. E che lo terrà vivo, ancora per chissà quanto.

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Mattia Feltri per La Stampa
Non bisogna lasciarsi abbindolare: era tutto bello perché era tutto uno schifo. Non c’era via di scampo, non c’erano gli innocenti, non c’erano vittime ma soltanto persecutori che si contendevano il ruolo. Il ragionier Fonelli, che in gioventù era stato uno scadente quattrocentista, cercava di organizzare le olimpiadi aziendali, ma i colleghi della megaditta erano interessati soltanto al «lancio dello stronzo», cioè del medesimo Fonelli che finiva spianato sul marmo dell’atrio. Poi, raccontava la voce fuori campo del ragionier Ugo Fantozzi, attraverso spiate, ricatti, adesioni alla mafia, alla camorra, alla P2, e a quattro abbonamenti a vita a Famiglia Cristiana, Fonelli era improvvisamente salito a megadirettore naturale, aveva assunto il nome di Cobram II e finalmente indetto le gare d’atletica leggera; e tutti si erano untuosamente iscritti. Poi, è vero, in ogni film Fantozzi aveva uno scatto d’orgoglio, entra nella stanza all’Olimpo del diciottesimo piano dove i bambini sono accolti uno per volta in occasione del Natale da megadirettori naturali e laterali, che si scambiano regali faraonici, panettoni d’oro massiccio a ventiquattro carati con zaffiri e ametiste al posto dei canditi e brindano con champagne riserva 1612; ed entra mentre la bruttissima figlia Mariangela – la bambina, la babbuina – è arrampicata sull’attaccapanni intanto che i blasonati le tirano noccioline.
Tragico silenzio di colpa. «Comunque a tutti loro i miei più servili auguri per un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo».
La frase è cortigianesca, ma il tono no, è grave. Nessuno dice nulla. Viene da esplodere in un urlo esultante e liberatorio, e però Fantozzi è il padre che subisce conati di vomito ogni volta che guarda la piccola, al circo la scambia con uno scimpanzé, non si salva niente, nemmeno l’idea che ogni scarrafone sia bello agli occhi dei genitori. Ed è davvero meraviglioso perché non c’è astio né rancore, c’è un pessimismo lucido e cinico, irreparabile, non c’è tesi e antitesi, i padroni sono padroni, sulle porte degli uffici hanno targhe con scritto Gran. Figl. di Putt. Lup. Mann., quelli con predisposizioni progressiste vogliono gli impiegati a tavola con loro e li chiamano «cari inferiori», ma i rivoluzionari sono come il dottor Riccardelli che, non avendo potere sulla vita lavorativa della massa impiegatizia, infieriscono sul tempo libero: la sera di Inghilterra-Italia, prima leggendaria vittoria a Wembley, (Fantozzi celebra con frittatona di cipolle e Peroni familiare gelata) sono tutti convocati a vedere un film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco, tocca andare per non passare da reazionari borghesi.
Diventerà la sera della Corazzata Potëmkin («una cagata pazzesca») e Riccardelli sarà sequestrato e obbligato ad assistere a Giovannona coscia lunga inginocchiato sui ceci. Oppure sono come il mitico Folagra, esiste davvero, sta in un sottoscala della megaditta e parla di formazioni di gruppi spontanei, di collettivi urbani, di cogestione proliferante. Falci in pugno e bla bla bla compagno.
Poi ieri qualcuno celebrava l’epopea del dipendente col posto fisso, l’articolo 18 e niente Jobs Act, ma Fantozzi e i suoi colleghi sono assenteisti, furbetti del cartellino, giocano a battaglia navale, vanno a prendere il sole sul tetto, Paolo Villaggio, iperbolico e impietoso, dirà che «l’unico sistema vero sarebbe quello di stanarli puntando sulle spie, i delatori che si annidano in tutti gli uffici d’Italia. Assoldare le carogne, insomma. Dopodiché, per i fannulloni, che rubano lo stipendio per non far nulla, arriva la punizione. Bastonarli, anzi no, meglio frustarli. La soluzione, infatti, non è farli andare fisicamente a lavorare perché pure se ci vanno, non fanno nulla. La loro esperienza fannullona è invincibile». Sono opportunisti, leccapiedi, ammazzerebbero il vicino di scrivania per uno scatto di stipendio, hanno meschine tendenze fedifraghe, quelli che ce la fanno, come il Fonelli citato all’inizio, sono immemori della vecchia condizione di sfruttati e si tramutano in sfruttatori sempre più implacabili. Capitalisti, ecclesiastici, rivoluzionari, popolo, ognuno pronto a sgraffignare quel che può, a esercitare senz’anima il potere concesso, poco o tanto, per il momento affiancati da un’abissale ignoranza, profeticamente avvinghiati a congiuntivi oggi così rampanti, «dichi», «facci», «batti lei». È questa l’Italia di Fantozzi, una globale e castale associazione per delinquere. Saperlo, e riderci sopra, è il primo atto di ottimismo.

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Maurizio Porro per il Corriere della Sera
Se ne è andato Villaggio, ma Fantozzi gli sopravvivrà come Charlot sopravvive a Chaplin, Hulot a Tati, Clouseau a Sellers. Ma adesso chi dirà alla fine del cineforum che La Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca? Era una falsità cinefila ma una verità sociologica. L’attore è morto ieri all’alba a Roma stroncato dal cuore e dal diabete e sarà ricordato con cerimonia laica domani (alle 18.30) alla Casa del cinema. Prima, invece, camera ardente in Campidoglio dalle 9.30 alle 16.30.Ha portato via il suo corredo di stramberie, la sua moda e soprattutto la maschera di Fantozzi, travet umiliato e offeso nato dall’osservazione di una middle class angariata dal Padrone (vedi romanzo di Parise) e dalla esperienza di impiegato. Un Paperino ad orario fisso, cartoon vivente in cui tutti ci siamo identificati, molto i bambini. Villaggio è stato una macchina da guerra: libri, cabaret, teatro, cinema, radio, tv. Nato il 30 dicembre del 1932 a Genova, dove visse anni scapigliati per affinità elettiva con Fabrizio De André con cui fu entertainer in crociere, poi scese dalla nave passando al cabaret, fino al serio avviso di chiamata dello Stabile di Genova nel ‘66. Figlio di ingegnere siciliano e madre veneziana insegnante di tedesco, fratello gemello di un ingegnere, Villaggio fu il «disonore» della famiglia, assunto all’Italsider ma presto cabarettista. Dai microfoni radio del «Sabato del villaggio» all’exploit nel ‘68 con «Quelli della domenica», miniera di talenti: Villaggio si sdoppia in Franz e Fracchia. Finché la metamorfosi si compie col popolare rag. Fantozzi Ugo, disperato fumetto della società dei consumi.Record di incassiFantozzi è la commedia dell’arte impiegatizia: i patetici cenoni l’ultimo dell’anno e le gite fuori porta, il pronti via per timbrare all’uscita e l’inchino al boss sul divano di pelle umana. Complici la paziente moglie Milena Vukotic, la scimmiesca figlia che era poi l’attore tunisino Plinio Fernando, il miope Filini-Gigi Reder collega d’ufficio, il vendicativo capo personale Umberto D’Orsi, Anna Mazzamauro, la signorina Silvani («Fantozzi è l’unico che mi ha davvero amata»). Mentre nel ’70 parte con Brancaleone di Monicelli, Villaggio fa il guastatore a Sanremo, ma la fama sta nella cassetta di sicurezza dell’irresistibilmente crudele Fantozzi. Furono record d’incassi lungo una saga di 10 episodi, figlia di una commedia all’italiana deformata all’inizio dallo spiritoso Luciano Salce (quasi 8 milioni di biglietti nel ‘75), passata in eredità a Neri Parenti. Gag e capitomboli ripetitivi con Fantozzi che resuscita, va in pensione, subisce, va alla riscossa, torna, vince la lotteria, viene congelato, clonato. Poi i campioni d’incasso: Le comiche, Grandi magazzini, I pompieri, Scuola di ladri. Villaggio sapeva fare il mattatore ma anche dividere la scena, possedeva innata la goliardia che ogni tanto si ritorceva contro (Il vizietto a teatro con Dorelli) mentre il ritorno alle scene è siglato dal Piccolo di Milano con l’Avaro nel ‘97 partito da un’intuizione di Strehler. I sogni mostruosamente proibiti di Villaggio, indistinguibili nella memoria dall’alter ego diplomato in ragioneria, passarono dopo Salce (Il Bel Paese) con Steno, Corbucci, Castellano e Pipolo, i Vanzina. Fu notato da Loy (Sistemo l’America e torno), Del Fra, Samperi, Cervi, Ponzi, Pompucci, Oldoini; ancora Monicelli (Cari fottutissimi amici), Gassman regista (Senza famiglia), Nichetti (Palla di neve), Salvatores (Denti). Elogio della folliaI fiori all’occhiello, a parte il David condiviso con Volontè e il Leone a Venezia nel ‘92, furono tre film da libri: Io speriamo che me la cavo di Wertmuller da Marcello D’Orta, La leggenda del bosco vecchio di Olmi, da Buzzati, La voce della Luna, da Cavazzoni. Fellini (con cui girerà per una banca i suoi ultimi spot con incubi freudiani) gli affida nel film, elogio della follia e profetica fu l’ultima battuta su «quel» bisogno di silenzio ancora inevaso. Villaggio mostrò così l’animo nascosto, delicato, infelice, oltre l’obbligo della risata, del cinismo, del suo buffo look no dieta. L’attore aveva accumulato il talento divertendosi a disperderlo in mille rivoli: vendutissimi romanzi fantozziani, meno quelli biografici, già parte di un finale di partita che lo stesso Villaggio non sapeva come giocarsi e che indubbiamente gli ha riservato anni tristi del clown che non sa invecchiare.

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Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera
Sono più di ottanta i film interpretati come attore da Paolo Villaggio (l’ultimo, W gli sposi di Valerio Zanoli deve ancora uscire) ma l’immagine del ragionier Fantozzi Ugo, con «la pelle color topo e i capelli giallo sabbia» ha finito per fagocitare tutto e tutti, facendogli così pagare un prezzo molto alto al successo e alla popolarità che accompagnarono, negli anni Settanta, l’ultima grande maschera del cinema (e della comicità) italiana. Inutile girarci in giro: Villaggio era Fantozzi, anche se aveva creato altri personaggi potenzialmente interessanti come l’aggressivo professor Kranz o l’ipocrita Giandomenico Fracchia, anche se era stato chiamato da Fellini, da Olmi, da Monicelli, persino dal Piccolo Teatro a interpretare Molière. Tutto passato in secondo piano, di fronte alla «salivazione azzerata», alla «cagata pazzesca», al «grand uff. cav. lup. mann.». Ma adesso, dopo un finale di carriera fin troppo in discesa, cui aveva contribuito un carattere non certo accomodante, tra soprassalti di orgoglio e momenti di sconforto (che aveva vanamente cercato di lenire la figlia Elisabetta: «il cinema italiano lo ha abbandonato»), viene anche da pensare che il comico Villaggio non abbia fatto molto per aiutare l’attore Villaggio a evitare le trappole di una pericolosa usura. Dei dieci film su Fantozzi se ne salvano quattro: i primi tre ( Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi, Fantozzi contro tutti ) e l’ottavo ( Fantozzi in paradiso ), perché gli altri mostrano impietosamente un attore appesantito che finisce per riproporre banalmente un meccanismo comico troppo slabbrato. Come se Villaggio fosse rimasto prigioniero non tanto del personaggio che aveva inventato ma di quei difetti che aveva messo alla berlina: l’incapacità di accontentarsi, l’invidia per la ricchezza, l’ambizione piccolo-borghese per il potere. La colpa, però, va divisa anche con un cinema italiano che pensava di poter sfruttare all’infinito quella gallina dalle uova d’oro: troppi film erano «plagi fantozziani» che il pubblico ha imparato ad accettare sempre meno. Così le chiamate per ruoli davvero importanti (e impegnativi) come il prefetto Gonnella della Voce della luna o il colonnello Procolo del Segreto del bosco vecchio hanno finito per essere nascoste dietro a troppi, inutili pseudo-Fantozzi.

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Aldo Grasso per il Corriere della Sera
Sbaglierò, ma per me il miglior Villaggio è quello televisivo: il rag. Ugo Fantozzi deve tutto a Giandomenico Fracchia. Dopo l’esordio radiofonico con Il sabato del Villaggio, eccolo materializzarsi in Quelli della domenica (1968). Villaggio rivoluziona l’idea di varietà che fino ad allora si identificava con la sfarzosa retorica dei lustrini. Impersonando il folle, rabbioso, sadico professor Kranz («Chi viene voi adesso?») e l’untuoso travet Giandomenico Fracchia riuscì a imporre un nuovo modello di umorismo, non consolatorio né qualunquista ma intriso di una modernità nevrotica dagli effetti comici dirompenti. Certo, con Fantozzi Villaggio è diventato un mito. Rappresenta la rivolta contro la presunta superiorità antropologica della sinistra, la resistenza che l’impiegato oppone a chi vuole colonizzare il suo tempo libero, lo sberleffo nei confronti dell’imbecillità di chi ci comanda. Il famoso anatema di Fantozzi contro il film La corazzata Potemkin appartiene al lessico dell’angheria e dell’inadeguatezza al punto che l’aggettivo «fantozziano», come ha scritto Claudio Giunta «è il nome della frizione tra un uomo semplice e le infinite trappole che la vita moderna semina sul suo cammino». Ma Fantozzi sa anche che la sua fama cresce in proporzione alla rogna e invece di sfidare le avversità si mette a corteggiarle in una sorta di drammatizzato masochismo di riporto. Di tutt’altra pasta è il professor Kranz, in frac e cilindro, perfetto «tetesco di Cermania»: è più astratto, appartiene al mondo dei cartoon, non gioca a fare la vittima ma considera gli altri sue vittime. Ma è Giandomenico Fracchia a rappresentar l’Ur Fantozzi, perché Villaggio non si è ancora sdoppiato. Parla e agisce in prima persona (Fracchia è Villaggio, mentre Fantozzi è una straordinaria invenzione di Villaggio, è un racconto): è vero che comincia a delinearsi l’emblema del martire d’ufficio, dell’impiegato sacrificato alla meschineria dei colleghi, ma Fracchia è un mostro cui Villaggio ha saputo conferire il carattere di allegoria della violenza perpetrata da uomini su uomini. Nel suo intimo, Fracchia è anche ribaldo e sregolato, perché riesce a non farsi mai mancare una punta di sana malignità. Nella vita impiegatizia le macchine si perfezionano, e gli uomini rimbecilliscono.

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Michele Serra per la Repubblica
L’Italia ha perduto uno dei suoi uomini peggiori: Ugo Fantozzi. Vile, sottomesso, brutto, inutile. Ma il ragionier Fantozzi sta per prendersi la più clamorosa e inattesa delle rivincite: sfiderà i secoli. Sopravviverà al suo pubblico, ai suoi stratosferici capi, alle donne che non lo hanno voluto, e al suo fragile, grande autore.
Noi contemporanei fatichiamo a riconoscere un classico, quando vive in mezzo a noi. Perché la familiarità lo banalizza. Ma Fantozzi è destinato a durare, come tutte le grandi maschere che portano la croce per nostro conto e per nostro comodo. Le maschere venute bene, naturalmente: quelle i cui tratti caricaturali sono così indovinati da diventare un paradigma.
Paradigma di che cosa, nel caso di Ugo Fantozzi? Della sfortuna e della sconfitta, ovviamente, come la quasi totalità degli eroi comici, da Paperino a Stanlio e Ollio; ma con una sua specifica e abominevole deformità, che è la condanna al tragico anonimato della società di massa. Ciò che rende fantozziano Fantozzi è la totale, definitiva insignificanza. Nessuna traccia, in lui, dell’energia picaresca di Paperino, o della poeticità bohemienne di Stanlio e Ollio, nessuna qualità che lo redima e lo faccia amare.
Paolo Villaggio, il cui sensazionale cinismo riluceva in ogni intervista, in ogni occasione pubblica, non ha previsto, per il suo omino, alcuna via di scampo. Goffo, panzuto, inetto, un vero e proprio perfezionista della mediocrità. Vittima e al tempo stesso succube complice di un’azienda- carnefice, quintessenza della ferocia gerarchica e della disumanità di una società fatta per la felicità di pochi e irraggiungibili capi, ma retta dalla massa inginocchiata dei subalterni, senza potere e senza identità. Come l’operaio di Chaplin in Tempi moderni, ma senza che l’ingranaggio che lo stritola si materializzi, e dunque senza nemmeno l’autodifesa ginnica di Charlot, la possibilità di divincolarsi, di ribellarsi alla Macchina.
È un ingranaggio metafisico, quello che tiene in pugno Fantozzi, è il Sistema come lo si prefigurò e lo si nominò, tentacolare e invincibile, nella ribellione degli anni Sessanta, quando Villaggio era effettivamente impiegato in una grande azienda genovese. (Disse di avere veramente conosciuto Fantozzi, tra quelle scrivanie; e di avergli solamente cambiato il cognome. Una estrema timidezza, l’altra faccia del suo cinismo, gli impediva di prendersi pieno merito del suo grande talento di comico e di scrittore comico, dunque di autore di se stesso: due ruoli coincidenti solo in pochi e grandissimi).
Come se non bastassero tutti gli altri problemi, Fantozzi è una maschera sessuata. A differenza di Paperino, a differenza di Stanlio e Ollio, aggiunge alle sue some quella del desiderio, che una moglie ovviamente orrenda e un’amata ovviamente inviolabile (oltre che simmetricamente orrenda), la signorina Silvani, trasformano in un autentico calvario. Pur essendo un pupazzo, Fantozzi non può godere della sola vera libertà del pupazzo, che è quella di non avere eros. Ce l’ha, nel senso che è in grado di misurarne l’assenza. L’esplosione del desiderio e la liberazione sessuale (alla Deleuze, alla sessantottina) risultano stravolti, ad opera del sessantottino Villaggio e del suo alter ego Ugo Fantozzi, in chiave perfidamente comica. Non come facoltà ma come ulteriore maledizione: bisogna fare all’amore per non sfigurare, per emergere in società, per sembrare all’altezza, e perfino il buffone, tradizionalmente dispensato da quella incombenza, ne rimane schiacciato. Il sesso diventa per lui una ulteriore pena da aggiungere a quelle della tradizione. Perdente anche in quel campo, quello che più nel profondo tocca l’autostima, e l’illusione della felicità.
Come in tutte le partnership tra creatore e creatura, il vincolo tra Villaggio e Fantozzi risulta al tempo stesso evidente e misterioso. Forse neppure Villaggio sapeva in che misura il personaggio era ricalcato sul proprio sentimento di inadeguatezza. Certo, dell’inadeguatezza, non ne faceva mistero: parlava di se stesso con affettuoso disprezzo e una esilarante assenza di compiacimento, era intelligente e cattivo, voglio dire verbalmente cattivo, incapace di retorica, spietato e probabilmente autopunitivo.
Spiritoso è dire poco, perché in aggiunta alla potentissima vis comica aveva la capacità di far balenare, sempre, quella scintilla di tragico che innerva solo la grande comicità, quella che rimane e ci fa dire “sembri Fantozzi”, o nei momenti di maggiore lucidità “sembro Fantozzi”.Fino dai suoi remoti esordi, negli anni Cinquanta, su palcoscenici piccoli e dispersi a Genova e dintorni, poi negli strepitosi esordi televisivi ( Quelli della domenica è uno dei varietà più divertenti e intelligenti di tutti i tempi), Villaggio ha messo in scena il personaggio dell’Inadeguato in varie edizioni: il prestigiatore crucco che sbaglia tutto, il presentatore impreparato e dunque aggressivo, lo showman incapace, l’impiegato- ameba. Una spietatezza sublime lo ha reso uno dei pochi veri grandi della comicità italiana di sempre. Verrebbe da dire: un maestro, se non avessimo il timore di offenderne l’indomito cinismo.

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Stefano Bartezzaghi per la Repubblica
Oggi che ci interessano così tanto le sgrammaticature degli altri, il prediletto fra i motti di Fantozzi pare essere quel celebre dialogo con Filini sul campo da tennis: «Batti?» «Ma… mi dà del tu?» «No, no, dicevo, batti lei?». «Ah, congiuntivo!». Nell’opera omnia fantozziana non c’è un dialogo che abbia i congiuntivi a posto, e non è raro che si arrivi al sublime anche coinvolgendo altri modi verbali: «”Me lo ridii”, “non glielo ridio, non glielo posso rideare”».
L’altra regina fra tutte le massime fantozziane è «Per me la corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca!», una botta assestata agli obblighi dell’éngagement e della pensosità (in anticipo sul «riflusso»), che molti considerano ancora liberatoria (nel film diventava «Kotiomkin» e nella memoria di molti a essere pazzesca era invece, più pudicamente, «una boiata»). I cineforum non ci sono più, gli stessi cinéphiles stentano parecchio, ma resiste il loro scherno, che è come se fosse andata perduta la Gioconda di Leonardo e ci restasse solo quella con i baffi apposti da Duchamp.
L’episodio della figlia – interpretata da Plinio Fernando, schernita come Cita dai capi di Fantozzi e da lui consolata con l’evocazione di Cita Hayworth – è l’apice schiettamente razzistico (i poveri sono brutti e i ricchi sono belli, almeno in gioventù) del principio classista fantozziano che conosce declinazioni ancor più surreali: la famosissima «poltrona in pelle umana» del Megadirettore Galattico e, all’altro capo, l’altrettanto famigerata «nuvola da impiegato», che nella vita reale viene evocata ogni volta che viene da piovere di venerdì sera, sulla strada per il mare (ma che a voler ben guardare è anche l’opposto del mito imprenditoriale del «sole in tasca»).
A partire dal suo titolo, Un errore clamoroso: una vacanza a Cortina d’Ampezzo, il capitolo sciistico del Secondo, tragico libro di Fantozzi è forse il massimo concentrato di fraseologia fantozziana: «ciao, Puccetto», «una palla mostruosa», «i capelli presbitero», «era così nel pallone che disse anche di essere stato “azzurro” di sci», «un terrificante bolo di zucchero-ferro-cemento grande come una mela» (descrizione di una caramella), «la bestemmia che squarciò la valle … Trentasei minuti, un record!», «a pelle di leone». Compare qui anche una «sciabolata» (peraltro, «di felicità»), che ha fatto scuola fra i telecronisti. Ma è proprio all’enfasi da telecronaca che s’ispira la voce narrante di Villaggio: «A tre metri dalla vasca, piede su saponetta. Va su alla Dibiasi: carpiato doppio reale incrociato all’indietro nella vasca a 5000 gradi sopra zero».
Gaffe, goffaggini, umiliazioni, sussulti di dignità, arroganze, crocefissioni in sala-mensa. E poi «orrendo», «mostruoso», «pauroso», «terrificante», «clamoroso», «pazzesco». E gli elenchi, fra cui il più celebre è (dal film): «calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero».
Alla fine, però, il vero aggettivo fantozziano è «tragico», per il ruolo che gioca nei contesti in cui compare. Dal titolo Il secondo, tragico libro di Fantozzi a un incipit apparentemente svagato: «In un clima tragicamente festoso...». Qui, di Fantozzi, c’è proprio tutto il mondo.

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