La Stampa, 4 luglio 2017
Gervasutti, l’alpinista estremo che interrogava l’infinito. Una biografia di Enrico Camanni ripercorre l’avventura umana e spirituale del Fortissimo
L’uomo interroga l’assoluto e l’assoluto non risponde. Così Enrico Camanni, a oltre settant’anni dalla morte, racconta «il Fortissimo», Giusto Gervasutti, in una biografia – Il desiderio infinito (Laterza, pp. 269, €19) – che ne ricostruisce la cornice storica, l’avventura terrena e spirituale, l’alpinismo estremo. La vita di Gervasutti fu un continuo viaggio verso Ovest, scrive l’autore, «dall’Austria all’Italia, dalla Carnia alle Dolomiti, dal Friuli al Piemonte, e poi il Monte Bianco, il fronte occidentale, il Delfinato, le Ande, il sogno del Fitz Roy. Torna a Est solo da morto».
Un viaggio denso di motivazioni anche letterarie e di gusto per l’avventura: «Gli avevo rivelato Conrad», ricorderà l’amico Massimo Mila negli Scritti di montagna, «e, non senza trepidazione, l’immenso ma non facile Moby Dick di Melville: era diventato per lui una specie di bibbia e non so quante volte se lo fosse riletto».
Il viaggio – dopo gli inizi sulle Dolomiti e sulle Alpi centrali – comincia nel 1929, quando il ventenne Gervasutti, originario del Friuli, arriva in Piemonte e si appresta a diventare torinese d’adozione, ponendo le basi che lo porteranno a essere uno degli scalatori più completi tra le due guerre. «Con il servizio militare», scrive Camanni, «scopre le bellezze delle Alpi occidentali. Durante la leva conosce Torino, i parenti torinesi e le bianche cime sul confine francese. Giusto non riesce a togliersele dalla testa e progetta senz’altro di ritornarci».
Forse non viene a Torino con l’intenzione di restare per sempre, ma si convince rapidamente. «Nel 1931 segue i corsi dell’Avogadro e si inserisce nell’ambiente della montagna, accorciando parecchio il tirocinio dei giovani alpinisti subalpini: sci alpinismo, palestra di roccia e vie classiche sul Monte Bianco. Anche se sta per diventare accademico del Cai grazie alle scalate dolomitiche, non approfitta di accompagnatori esperti e non partecipa all’estate dell’élite. Neanche una via con Boccalatte, De Rege e Rivero. Si fa le ossa per conto suo e scopre di essere adatto alle ascensioni su roccia e ghiaccio, ai lunghi dislivelli, ai monti isolati e selvaggi».
Le grandi Alpi rispondono esattamente al suo ideale: «Magellano, Caboto, Vespucci, De Gama... Che cosa cercano?», scrive Gervasutti nel suo diario Scalate nelle Alpi. «Gli storici rispondono: il dominio del mondo, la via delle spezie, la ricchezza... Quanta banalità! Sono risposte di miseri che non comprendono il richiamo delle solitudini. Che nella vita non alzeranno mai il capo per ammirare lo scintillio di una stella. Che cosa cercano dunque questi audaci? Nulla, forse. Ma nell’ansia di andare oltre, essi seguono l’occulto richiamo che domina i loro cuori».
Gervasutti è carismatico, audace, determinato. Conosce l’adrenalina e l’estasi della montagna. Sa raccontarla. Conosce il freddo e l’assideramento: «Viene la bianca fata dagli occhi verdi e tenta: il sangue sembra arrestarsi nelle arterie e gli occhi si chiudono irresistibilmente al dolce invito e non ci si risveglia più». Conosce la rabbia e la disperazione delle grandi imprese. Durante una scalata, per non precipitare usa anche i denti per aderire alla roccia: «... compresi che se non salivo subito ero perduto. Trecento metri mi separavano dallo zoccolo di ghiaie. Risalii di scatto facendo forza con le dita, ma non oltrepassai il punto di prima. Un fremito mi corse per la schiena. Ripetei ancora una volta lo sforzo aiutandomi a tenere l’aderenza con i denti, ma non ottenni altro risultato che insanguinarmi la bocca...».
Conosce lo struggimento leopardiano: «Raggiungiamo la vetta alle 11. Ci stendiamo al sole. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La mèta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà».
Camanni critica la «distrazione sabauda» e i salotti borghesi dell’epoca: «Gervasutti non è stato dimenticato», scrive, «ma è stato imbalsamato. Capita alle persone scomode, alle memorie imbarazzanti, alle vite rimosse. (…) Da torinese, partirei da un punto: la mia città è una madre molto distratta. L’eccesso di understatement subalpino, le regole non scritte dei salotti borghesi e l’aristocratico nichilismo dei circoli intellettuali la portano ad abbandonare educatamente i figli migliori. “Torino non premia i suoi figli più delicati, alti e fragili artisti, se non con il dono dell’oblio”, scrive Andrea Gobetti, nipote di Piero, altro personaggio scomodo e rimosso. (…) Torino mette al mondo i talenti e li accantona, specie se mostrano indipendenza e creatività inarginabili. Succede anche a Gervasutti, figlio adottivo della città».
Gervasutti interpella l’infinito fino all’ultimo: il 17 settembre 1946, alla fine dell’ennesima stagione sul granito del Monte Bianco, è impegnato con Giuseppe Gagliardone sul pilastro più alto del Mont Blanc du Tacul che oggi porta il suo nome. Il tempo cambia e i due compagni sono costretti alla discesa. Durante una manovra in corda doppia, «il Fortissimo» afferra un capo soltanto della fune, che si sfila dal chiodo e precipita con lui.