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 2017  luglio 04 Martedì calendario

Daniil Medvedev, il pivot russo che ha saputo svelare i difetti di Wawrinka. Cronache da Wimbledon di Gianni Clerici


Una giornata nella quale ero stato distratto dai costumi, dalla moda e dal patriottismo, mi ha infine costretto alla attività di cronista, per la più che inattesa sconfitta del povero Wawrinka, battuto da Daniil Medvedev, un giovane della contemporanea generazione dei Tennisti Pivot, quelli più alti di due metri. La vicenda è terminata all’ora in cui si chiudono, per solito, le Doherty Gates, i cancelloni in nero ferro che ricordano i primi vincitori del torneo. Probabilmente meno incapaci dello svizzero, i mitici fratelli, di mutare gioco, e di adattarlo a quello dell’avversario. Wawrinka è stato eguale a se stesso, nel male più che nel bene, ed ha fatto del suo peggio per mettere in palla il giovanissimo avversario, che migliorerà certo la posizione di 29 del mondo, forse raggiungendo il suo omonimo, ma non parente, Andriy Medvedev battuto nel ’99 da Agassi, al Roland Garros, dopo aver dominato i primi due set della finale.Prima di una simile esplosiva partita, avevo seguito, da osservatore, l’apertura dei Championships. Per un’esperienza abbastanza vecchia, ricordavo il primo giorno di Wimbledon come un giorno diverso. Ricordavo le signore in abito da pomeriggio e, spesso, con il cappello e, sempre, ricoperti da un blazer, una giacca blu, e stretti al collo da una cravatta, spesso regimental, i gentlemen. Tutta quella bella gente, quand’era priva del biglietto per il Centre Court, si assiepava lungo i vialetti fioriti che separano tuttora i campi, ma lo faceva in un modo infinitamente meno caotico, magari arrivando a cedere un posto sulle panchine a un vegliardo, un tipo dai capelli bianchi. Oggi gli spettatori erano vestiti con magliette dalle scritte più svariate, ma sempre vistose e coloratissime. Non meno colorate erano le scarpe, di gomma, che un calzolaio di vent’anni fa non avrebbe osato immaginare. Tra le ragazze il modello ora più usato sono mutandoni neri che terminano sotto il ginocchio, lasciando spesso nudi i polpacci, per lo più muscolosi.Tra i contemporanei ho osato infilarmi, alieno da un giornalismo che utilizza oramai soltanto visioni televisive, e conferenze stampa. Purtroppo la densità della folla era tale da impedirmi una visione decente di qualche giocatore che non conoscevo, tra i quali ero soprattutto interessato agli italiani. Grazie ad un giovane tennista di Alessandria, Enrico, che mi aveva consentito di infilarmi, a costo di trattenere il respiro, tra sé e la nonna, ho visto un, per me sconosciuto, Thomas Fabbiano, cui soltanto la statura, e il conseguente servizio, ha impedito di meglio opporsi ai due metri dell’americano Sam Querrey, testa di serie 24. Più fortunato, almeno per una volta, è stato Bolelli, reduce dai mille incidenti che ne hanno limitato la carriera, costringendomi all’errore quando lo vidi per la prima volta a Bologna, e affermai «da qui sono passati Canepele, Merlo, Sirola e Bertolucci. Ecco un nuovo campione». Dal Re degli infortuni ho saputo che aveva rischiato nelle qualificazioni soprattutto nel terzo set contro Groth, altro battitore da 240 l’ora. Ed era pertanto riuscito ad entrare nel tabellone, nel quale più volte l’avevo ammirato per quindici match passati, due dei quali perduti al quinto contro Nishikori, giungendo una volta a due punti dal match.Fognini, infine, si è allenato con il vecchio russo Tursunov, forse presente a Wimbledon per ritirare i quarantamila euro del primo turno. Delle italiane rimanevano da ammirare il genio di altri tempi, testardamente connessa alla contemporaneità, Francesca Schiavone, una Roberta Vinci dissimile dalla se stessa che fu, e quella che non ci ha lasciato grandi speranze di sostituirla, Camila Giorgi. Schiavone ha palleggiato disinvolta contro Mandy Minella, figlia di un migrante italiano in Lussemburgo, minatore. La attendeva, quale premio, l’abbraccio di Gianna Nannini. Roberta Vinci, che ho ammirato per anni grazie anche al rovescio da giardiniera, ha avuto due net sfortunati che le sono costati il primo set, e si è poi dissolta contro Kristina Pliskova, la sorella povera e mancina della quasi-grande Karolina. Quanto a Camila Giorgi, mi è parsa meno condizionata dall’assenza di un papà-coach, che forse le consentirebbe, a ventisei anni, diversa personalità. Scrivo questo da vecchio amico, da chi l’accolse, bambina di ritorno dall’Argentina, intuendone il talento tennistico. Siamo ormai quasi privi di nuove giocatrici, e di nuovi campioni. Camila può ancora essere il collante tra quanto ci resta, e il futuro.