Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  luglio 02 Domenica calendario

Leonardo Nascimento de Araújo: «Il calcio modello per il mio Brasile»

Pablo Neruda diceva che il suo corpo era diverso fra l’esilio e il Cile. Leonardo, globetrotter del pallone, cittadino del mondo innamorato dell’Italia e di Milano, va oltre.
«I miei capelli senza il calcare milanese, il mio corpo, la mia sinusite sono diversi in Brasile». E non è solo questione di saudade. È qualcosa che afferisce con il respiro profondo, il sangue di Rio de Janeiro. Impalpabile e concreto.
Leonardo, all’anagrafe Leonardo Nascimento de Araújo, arriva a Milano nel 1997. Ha quasi 28 anni e alle spalle già migliaia di chilometri in giro per il mondo. Dopo lo scudetto con il Flamengo al fianco di sua immensità Zico, un anno al São Paolo, uno al Valencia, poi in Giappone al Kashima Antlers, e in Francia al Paris Saint-Germain. «Sbarcai in Italia con la mia solita idea, un paio d’anni e poi con curiosità verso altre avventure. E, se non mi fossi trovato bene, c’era sempre un porto sicuro, casa mia in Brasile», così ricorda l’arrivo in Italia. Il 30 agosto 2017, Leonardo festeggerà vent’anni di Milano: «Non ci avrei mai scommesso», sorride con quei suoi occhi neri pieni di uno stupore quasi fanciullesco. «A Milano sono diventato grande. So che può far ridere questa affermazione ma, quando giochi a calcio, anche a 28 anni, hai ancora un mondo da scoprire, quello del dopo carriera. Qui ho avuto le occasioni per costruirmi una vita: i cinque anni con la maglia rossonera, i sei come dirigente al fianco di Adriano Galliani, che per me resta l’università dell’amministrazione, e la stagione sulla panchina del Milan». Filotto, insomma. «Qui sto bene, è ormai casa mia – confessa – ma non passa giorno senza che pensi al Brasile, alla sua situazione drammatica».
Le proteste sono quotidiane, la corruzione dilagante, i giornali pieni solo di cronaca giudiziaria, la disoccupazione al 13,6%, il Pil in caduta libera (-2,5%) e le infrastrutture di Giochi 2016 e Mondiale 2014 in totale abbandono. «È la crisi più profonda della storia del mio Paese. Ormai ho trascorso più anni all’estero che nella mia patria: mi sento un traditore, sono lontano e una parte di me è sempre in pena». Rivoltare un quasi continente qual è il Paese sudamericano sarebbe impresa da titani: «Da anni, mi capita quasi quotidianamente di immaginare come potrei impegnarmi per il Brasile, poi mi dico che è utopia pensare di far cambiare storia e mentalità a 210 milioni di persone da soli ma, se nessuno ci prova, tutto andrà sempre peggio. Non sarei in grado di fare il politico, troppi i compromessi da raggiungere, troppe le mediazioni da guidare». E poi, forse, in un Paese in cui i politici sono quasi mosche bianche perché tantissimi sono in prigione per corruzione, i governanti, la res publica non hanno più grandi tifosi: «L’esperienza che ho vissuto con la Fondazione Milan mi ha insegnato che il calcio può fare tanto: a Nazareth riuscimmo a costruire un ospedale aperto ai credenti di tutte le religioni».
Il calcio come esperanto del mondo: «Il calcio può salvare anche il Brasile perché è l’unica valvola di autostima che abbiamo. La mia sfida, quella che mi ronza in testa da un po’, è legata al Flamengo, la squadra di Rio in cui ho scoperto la bellezza del calcio. Oggi il club è una società sportiva senza scopo di lucro con un consiglio deliberativo di troppe persone, un cda affollato e un presidente che, con un gruppo di imprenditori, sta risanando i conti, ma conosce solo la parte gestionale. Quella sportiva è lontana dal far diventare la squadra competitiva. Il Flamengo vincente e ben gestito a livello finanziario può aiutare a trascinare Rio e il Brasile verso una profonda rigenerazione, non è utopia. Ricordate la forza del Flamengo di Zico: immagino, e vorrei impegnarmi in un rilancio simile, una squadra che sia mezzo di integrazione e interazione. Sarebbe una bomba sociale, esempio e modello di rinascita».
Dopo la carriera e le vittorie sul campo (dal Mondiale Usa 1994 col suo Brasile fino allo scudetto, inatteso e bellissimo, col Milan di Zaccheroni nel 1998-’99), Leonardo ha raccolto i mezzi per un’avventura del genere, lavorando con costanza e pazienza: «Sono stato per sei anni dirigente al Milan, per due al Paris Saint-Germain: scuole in cui ho imparato tanto». Così come è successo nell’anno e mezzo che l’ha visto protagonista in panchina: nel 2009-2010 al Milan, nel 2011 all’Inter: «Conta il saper comunicare, il gestire, l’essere concentrati, il riuscire a superare le polemiche, che in quegli anni non mancarono». Resta agli annali la definizione di “incompatibilità culturale” con cui Leonardo lasciò, con un anno d’anticipo rispetto al contratto, la panchina del Milan. Con il presidente dei rossoneri di allora, che mai Leonardo cita con nome e cognome era difficile parlare: «Ogni situazione – cerca di spiegare – è figlia di colpe da dividere fra i protagonisti, eravamo due mondi diversi». Ma in quel Milan giocava Ronaldinho: «Il più forte calciatore che abbia allenato. Era pura tecnica, un giocoliere che incarna al meglio il Brasile, il suo essere spontaneo, irriverente, alegro». E, sì, su quell’aggettivo, alegro, e solo su quello si sente una sbavatura nell’italiano perfetto del poliglotta Leonardo. Ma non è una sbavatura, è solo il cuore alegro del Brasile, è il dna di un popolo che balla anche quando gioca a calcio o quando parla.
Finita l’avventura da allenatore del Milan, ecco Massimo Moratti che chiama. Son passati appena sette mesi. Sliding doors. A Benitez era appena stato dato il benservito, l’Inter del Triplete boccheggiava: «Al presidente Moratti, che ammiro e conosco bene anche per molte collaborazioni in progetti umanitari, risposi “Lei sta scherzando, vero?!?”, e poi, invece, in pochi mesi riuscii a costruire un’avventura meravigliosa». Con tanto di Coppa Italia. «Non mi pento di nulla, di quel passaggio dal Milan all’Inter. Ci fu qualche polemica, ma credo che tutto sia risolto perché al Milan, pur non essendo stato io né Paolo Maldini né un leader assoluto, ho dato con costanza e questo mi viene riconosciuto. E aver gestito quelle polemiche mi ha cambiato come persona».
In fondo, oggi più che mai, all’allenatore questo è richiesto, gestire uomini e milioni sul crinale invisibile fra il successo e il nulla: «In Inghilterra lo chiamano manager – spiega Leonardo –. Quello serve per condurre una squadra: managerialità, è necessario comprendere la linea societaria e incamminarsi lungo quella strada. Guardate Alex Ferguson: ha guidato per 27 anni il Manchester perché aveva chiara la linea, l’obiettivo della società. Zero screzi, tanto lavoro e successi a pioggia».
Quelli che tanto mancano al calcio italiano a livello internazionale: «L’Italia, ad esclusione della Juventus dove programmano, progettano, si danno tempo e mettono tanti soldi solo se ne vale la pena, si è fermata dieci anni fa. Il suo calcio funzionava, vinceva, c’erano le fortune dei Moratti, degli Agnelli, dei Berlusconi che permettevano alle famiglie di staccare assegni per avere i campioni più forti. Un management casareccio che poteva funzionare negli anni 80-90; le squadre come la seconda azienda di grandi gruppi. E nessuno che guardasse avanti, l’Italia era autosufficiente, ma oggi gli stadi sono obsoleti e manca una struttura politico-organizzativa. Mentre Inghilterra, Germania, Real Madrid e Barcellona si sono date regole e modelli, hanno canalizzato i soldi delle tv e soprattutto hanno sviluppato da anni avvolgenti politiche di marketing negli altri continenti a caccia di nuovi tifosi e ricavi milionari». Ma soldi in Italia ne stanno arrivando, le squadre di Milano sono in mano ai cinesi: «Mi pare complicato immaginare uno sviluppo del calcio italiano sugli investimenti stranieri – è l’amarezza di Leonardo, che quasi disegna con le mani i suoi concetti –: se si mettono soldi, anche tanti, sui giocatori ma non c’è organizzazione, si va poco lontano».
In questi mesi, Leonardo, conclusa la stagione come commentatore a Sky, si gode l’estate, le vacanze in Brasile, Sardegna e Toscana sono alle porte: «Forse sto invecchiando e vivo quasi un piccolo rifiuto, o solo un distacco rispetto al calcio. Mi aiuta a rimettere nel giusto ordine le cose della vita, godendo dell’ozio creativo descritto da Domenico De Masi, del tempo, della possibilità di osservare le persone, i loro sguardi, i loro comportamenti come facciamo così di rado ma come ci insegnano i filosofi antichi». Darsi tempo per trovare la strada, come aveva fatto già all’inizio della carriera quel giorno del 1983 quando, a 14 anni, partecipò un po’ per caso a un provino: «Eravamo 300, rimanemmo in tre, ma gli altri avevano fame di calcio, erano spavaldi, avrebbero dato la vita per farcela». Non Leonardo che viene da una famiglia della classe media, di ingegneri e dirigenti d’azienda, dalla quale ha avuto tutto, pure una mamma che proprio non lo voleva calciatore: «Anch’io dico ai miei figli di prediligere lo studio», conclude da papà felice Lucas (23), Julia (21), Joana (17), e di Tiago e Tomas, 6 e 3 anni, i due più piccoli nati dal suo matrimonio con Anna Billò, la giornalista sportiva di Sky alla quale chiese di sposarlo in diretta tv, mentre lei, timidissima, cercava di continuare a parlare di calcio e sorteggi, ma l’aveva già conquistata tempo prima con un caffè e una copia del Mondo di Sofia di Jostein Gaarder.
Ora è l’estate: il solito caffè all’Arco della Pace, le passeggiate al Parco Sempione con i bimbi, la bici, magari aspettando una telefonata: «Più che la squadra che chiamerà, conterà la persona», conclude, sornione, Leonardo. Perché ha imparato la forza tranquilla dell’otium e che è meglio “devagar se vai ao longe”, rallentare se vuoi andare lontano.