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 2017  luglio 03 Lunedì calendario

Il ritorno della plastica, l’ultima rivoluzione Usa

«Oggi negli Stati Uniti non c’è un altro settore industriale che cresce di più», dice Thomas Runiewicz, economista della società di consulenza britannica Information Handling Services (Ihs). «È uno smottamento nell’equilibrio del settore manifatturiero», aggiunge al Wall Street Journal Andrew Liveris, ceo della multinazionale statunitense Dow, tra i leader della chimica nel mondo. Perché lo shale gas e lo shale oil, cioè il gas e il petrolio di scisto, estratti attraverso la trivellazione orizzontale o il famigerato “fracking” (fratturazione idraulica delle rocce con acqua e additivi chimici ad alta pressione), si espande senza sosta negli Stati Uniti, mentre in Europa sono tecniche fortemente osteggiate. Questo, oltre ad avere conseguenze dirette sul mercato mondiale delle materie prime – i paesi arabi del Golfo hanno aumentato a dismisura la produzione di petrolio per controbattere – ha innescato un altro enorme fenomeno nell’industria petrolchimica. E cioè il grosso aumento della produzione di plastica Made in Usa e della sua conseguente esportazione, soprattutto verso i mercati emergenti di America Latina e Asia, oltre all’Europa: contenitori di ogni sorta, bottiglie, confezioni di cibo per bambini, parafanghi, componenti di smartphone e tablet e molto altro. Tutti figli dello shale e del fracking, oramai inarrestabili negli Stati Uniti. I dati, riportati dal Wall Street Journal, sono indiscutibili: negli Stati Uniti i nuovi investimenti nel settore petrolchimico, secondo l’associazione di categoria American Chemistry Council, hanno raggiunto quota 185 miliardi. L’anno scorso, i fondi dedicati a costruzione e sviluppo delle centrali chimiche hanno rappresentato la metà degli investimenti di capitale manifatturieri del paese. E pensare che nel 2009, questa fetta era soltanto del 20 per cento. Non solo. Secondo Ihs Markit, le esportazioni dei prodotti petrolchimici americani, inclusi quelli di plastica così come fertilizzanti, solventi e adesivi, crescerà fino a raggiungere una quota pari a 110 miliardi all’anno di qui al 2027 (nel 2016 era inchiodato a 17 miliardi). Significherebbe raggiungere il valore, e il traguardo, della torta delle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita. Perché il mondo vuole sempre più plastica. Sempre secondo l’American Chemistry Council, l’export di plastica innescato dall’estrazione orizzontale e idraulica di gas e petrolio aggiungerà 294 miliardi di dollari alla quota annuale di produzione nazionale americana e creerà oltre 460mila nuovi posti di lavoro (indotto incluso) entro il 2025. Più in generale, l’export netto della plastica degli Stati Uniti, lo scrive uno studio di Nexant Consulting, presto si triplicherà: dai 6,5 miliardi di dollari del 2014 ai 21,5 miliardi nel 2030. Questo nonostante l’automatizzazione del lavoro sempre più feroce e l’imminente boom delle auto elettriche. «Nel 2005 era tutto diverso», spiega a Repubblica Thomas Kevin Swift, capo economista e managing director dell’American Chemistry Council, «oggi, dopo una decina d’anni, con il gas di scisto gli Stati Uniti hanno un vantaggio notevole nei confronti dell’Europa e della sua produzione di plastica legata al petrolio. Negli Stati Uniti i costi delle materie prime relativi a questo settore sono inferiori fino al 66% in meno rispetto agli altri continenti. Prima eravamo il Paese dove si spendeva di più. Ora siamo dove si spende meno. È una rivoluzione». Non a caso, Dow investirà nel petrolchimico 4 miliardi nei prossimi cinque anni. Ma molte altre imprese, anche straniere, stanno volando verso il Golfo del Messico per sfruttare la “bonanza” del settore, come Royal Dutch Shell e Chevron Phillips. Exxon, una delle multinazionali più attive con 20 miliardi di dollari dedicati al settore e 45mila nuovi posti di lavoro promessi, ha scelto Corpus Christi, in Texas, per sviluppare insieme alla Saudi Basic Industries un complesso petrolchimico da 9,3 miliardi di dollari. Sarà il più grande del mondo, aprirà nel 2021 e produrrà 1,8 milioni di tonnellate all’anno di etilene, principale componente della plastica. «Tutto il mondo già ci invidia per questo», ha dichiarato Neil Chapman, presidente della divisione chimica di Exxon. Del resto, proprio il Texas è una giuntura cruciale dello sviluppo del petrolchimico sul Golfo del Messico. Qui c’è tanto gas di scisto a buon mercato contenente l’etano, dal quale poi viene ricavato l’etilene, uno dei principali componenti delle “palline” di plastica grezza che poi vengono esportate in tutto il mondo. In Texas, specialmente intorno all’affollato porto di Houston Ship Channel, le principali aziende del settore si giocano il loro futuro, alla ricerca di innovazioni sempre più utili e convenienti. LyondellBasell, per esempio, nell’ambito di 4 miliardi di dollari di investimenti nel petrolchimico nel prossimo futuro, ha annunciato il mese scorso un nuovo stabilimento a La Porte (costo 700 milioni di dollari) per produrre il nuovo polietilene “hyperzone”, prezioso ingrediente di una plastica che sarà più costosa, ma allo stesso tempo più resistente e leggera, promettono a LyondellBasell, perfetta per tubature, prodotti industriali, taniche ma anche contenitori di detergenti per la casa, fertilizzanti e bevande. Un’inedita tecnologia, tra l’altro, sviluppata negli ultimi anni negli stabilimenti del nord Italia. Sempre vicino a Houston, Dow ha appena completato un mostruoso stabilimento di cracking termico dell’etano, costo 6 miliardi di dollari, per la produzione di 1,5 tonnellate di etilene all’anno. Eppure solo un decennio fa negli Stati Uniti nessuno si aspettava una svolta del genere nel settore petrolchimico e dunque di produzione, ed esportazione, di plastica. Sembrava non ci fosse un futuro. Poi è arrivata la rivoluzione dello scisto che ha fatto emergere uno tsunami di gas e petrolio a buon mercato in casa, adombrando il carbone tanto amato dal presidente americano Donald Trump. Nonostante il prezzo dell’oro nero sia ancora basso, grazie a scisto e fracking gli Stati Uniti hanno ora accumulato un vantaggio che durerà anni. Basti solo pensare che, come sottolinea la Camera di Commercio statunitense, grazie alle centrali alimentate da gas naturale, i costi elettrici della produzione industriale Usa sono ora inferiori del 30-50% rispetto ai principali paesi concorrenti. Insomma, è la seconda “shale revolution”, la seconda “rivoluzione di scisto”, come ha scritto il Financial Times qualche settimana fa: «Queste tecniche di estrazione in America sono il singolo fattore che più ha cambiato il settore energetico mondiale negli ultimi dieci anni». Se lo “shale gas” sta rivoluzionando, tra le altre cose, il mercato della plastica, shale e fracking aumenteranno la produzione americana di petrolio di 800mila barili al giorno entro il 2020. Non è un fenomeno passeggero, ma uno sconvolgimento radicale degli scenari energetici mondiali. Ma quali saranno le conseguenze per l’ambiente? «Ci saranno molti rischi», dichiara a Repubblica Dan Mitler del Ceres Investor Network che si occupa di rischi climatici e sostenibilità ambientale, «dal pericolo di contaminazione delle acque all’erosione del suolo, e poi inquinamento acustico e luminoso e rischio di eventi sismici. Inoltre – aggiunge Mitler – molti di questi nuovi prodotti di plastica sono mono o biuso. E questo non farà che aggravare la piaga dei rifiuti di plastica nel mondo, soprattutto in mare».