la Repubblica, 1 luglio 2017
Storia di Giacomo, l’uomo computer che calcolava troppo
Camille Flammarion, in un articolo pubblicato su “L’Illustration et l’ Astronomie Populaire”, lo descrive come un uomo dalla fronte sporgente. Anzi, parla di una fronte «di incredibile prominenza, che ricorda la testa di un individuo affetto da meningite». In effetti, nella fotografia che accompagna l’articolo, l’osso frontale di Jacques Inaudi appare non solo particolarmente convesso ma anche piuttosto ampio. Inaudi è seduto leggermente di traverso sopra una sedia. Il suo braccio destro ha il gomito puntato contro lo schienale e sostiene, con la mano a pugno, il peso della testa che è reclinata di lato. Sulla lavagna alle sue spalle, che sembra occupare l’intera parete, sono tracciate file e file di numeri. Se non fosse per la lavagna e per la serie di numeri, a nessuno, vedendo l’immagine di quell’uomo garbato e dimesso, dall’aria vagamente malinconica, verrebbe l’idea che si tratti del «più straordinario calcolatore di tutti i tempi», come scrive Flammarion, impegnato forse, in quel momento, ad estrarre una radice quadrata con 17 decimali, o a contare i colpi di 8 metronomi che battono insieme a ritmi differenti, o magari a calcolare quanti abitanti ci sarebbero sulla Terra se i morti degli ultimi cinque secoli resuscitassero.
Jean -Martin Charcot, colui che è considerato il fondatore della moderna neurologia, che ebbe l’occasione di esaminare a lungo la testa di Inaudi, constatò come la sua volta cranica fosse separata in due emisferi cerebrali nettamente distinti. Principale ragione, a suo parere, per cui Jacques «non poteva sfuggire alla necessità di calcolare». «La mia sensazione» disse Charcot «è che fin da bambino, sommasse, dividesse, moltiplicasse senza avere consapevolezza del genere di attività a cui si stava dedicando». Inaudi stesso, tempo dopo, confermò questa impressione: «Avevo quattro anni e contavo ogni cosa. Ma era come se lo facessi a mia insaputa». Contava le nuvole in cielo, i rami e le foglie degli alberi, i sassi sulla strada. Contava le finestre delle case, le tegole sui tetti, le parole che durante la messa pronunciava il parroco. Quello stesso parroco che il 13 ottobre 1867 lo aveva battezzato con il nome di Giacomo. Se un giorno decise di cambiare quel nome in Jacques fu solo, come raccontò: «Per riconoscenza nei confronti della Francia, il Paese che mi ha fatto vivere».
In Francia ci arrivò poco più che bambino, proveniente da una di quelle valli che segnano il confine tra Piemonte e Provenza. Il padre, per sopravvivere, gira le piazze tra Nizza e Tolone con un organetto meccanico a tracolla. Giacomo tiene al guinzaglio una marmotta che danza e piroetta sulle zampe posteriori. Non sa ancora né leggere né scrivere, ma la sua capacità e la sua rapidità nel fare i conti sono sbalorditive. Durante le sagre di paese e le fiere del bestiame, riesce a risolvere, in non più di 10 secondi, calcoli inerenti operazioni di compravendita, per venire a capo dei quali, ai contadini e agli allevatori che lo osservano increduli, sarebbe necessario – complici il caldo, il vino e l’eccitazione – uno sforzo mentale quasi doloroso. È nel corso di una di queste dimostrazioni che un impresario lo nota decidendo di portarlo, il giorno stesso, con sé a Parigi. Debutta al Theatre Robert Houdin. Poi sarà la volta dell’Alhambra, dell’Empire, del Concert Parisien e, traversata la Manica, del Palace Theatre di Londra. La sua esibizione precede quella dei cani ammaestrati di Bobos, e viene dsubito dopo le evoluzioni dei fratelli Honolulu. Al termine dei suoi spettacoli, coloro che lo hanno ammirato sviluppare e risolvere con sconcertante facilità almeno quattrocento operazioni a 18 cifre, e ricapitolarne, poco più tardi, tutti quanti i risultati, sembrano avere un solo dubbio: se di Inaudi debba essere ritenuta più miracolosa la capacità di calcolo o più inverosimile la memoria. In particolare è il suo procedimento a sbalordire. Gli altri “calcolatori prodigio” si servono infatti o della scrittura o delle proprie dita (compreso Zerah Colburn, calcolatore del Vermont, che ha almeno due dita in soprannumero; un dettaglio che talvolta gli è d’aiuto, talvolta, ammette, d’impedimento). Jacques, da parte sua, non fa ricorso né all’una né alle altre, bensì alla propria voce. È il motivo per cui quando è sulla scena, intento a risolvere i problemi matematici più impervi, lo si sente ripetere a fior di labbra, come in una litania velocissima e indistinta, interminabili serie di cifre.
Questo particolare, unito alla scoperta che, al di là dei numeri, la memoria di Inaudi dimentica ogni cosa, fa sì che qualcuno inizi ad avanzare riserve sull’autenticità del suo talento. I membri dell’Académie des Sciences, lo obbligano ad assoggettarsi a una serie di verifiche. Utilizzano a questo scopo, uno dopo l’altro, il cronometro di Arsonval, il pletismografo di Mosso, il microscopio fonetico dell’abate Rousselot il tachitoscopio di Wundt, e infine un comune pneumografo che gli piazzano sul petto e che collegano a un diapason elettrico. Alla fine devono convenire che ciò che a loro sembra un inganno è solo la conseguenza del fatto, come puntualizza Alfred Binet, autore di Psychologie des grands calculateurs et des joueurs d’échecs, che «l’enorme massa di numeri messa in moto con i propri calcoli da Inaudi» finisce per prendere, inevitabilmente, nella sua testa, «un gran posto», e che ha perciò bisogno «di trovare grandi spazi vuoti».
È questa quindi la ragione per cui Jacques dimentica il proprio cappello al guardaroba del ristorante, l bastone da passeggio appoggiato al tavolino del caffè al quale è stato, fino a un momento prima, seduto. Non ricorda di essere stato in una città da cui si è allontanato solo una settimana prima, non riesce a tenere a mente le arie musicali che tutte le sere, e la domenica anche nel pomeriggio, accompagnano le sue esibizioni, non ricorda mai che giorno è (ma ciò non impedì a qualcuno di mettere in commercio, all’inizio del Novecento, un Calendario Perpetuo che portava il suo nome). «Le lunghe lettere che mi scriveva da fidanzato» raccontò un giorno la moglie «ripetevano, con modeste variazioni, un unico concetto, dal momento che Jacques non aveva modo di ricordare le parole che aveva, con fatica, scritto qualche riga più su».
Verso la fine degli anni Trenta, un giornalista lo andò a trovare nella casa, alla periferia di Parigi, in cui viveva ormai dimenticato. Una bronchite cronica gli impediva da anni di esibirsi. Un pesante berretto da golf proteggeva, estate e inverno, quella sua testa prodigiosa, che sembrava essere diventata col tempo forse un po’ più grossa, sicuramente più delicata. Inaudi raccontò al giornalista che, pur in quelle condizioni, non aveva mai smesso di contare. Che continuava, durante le sue lunghe, malinconiche giornate, a far calcoli. E quei pochi problemi, gli confidò, per i quali non trovava la soluzione di giorno, li risolveva di notte. Dentro sogni popolati esclusivamente di numeri. Sogni di cui conservava al suo risveglio il ricordo più vivo, più netto e per lui più piacevole.
( 1. Continua)