la Repubblica, 1 luglio 2017
Delitti, sequestri e fughe. Il romanzo criminale del bandito che sparava prima di pensare
La mascella squadrata, il naso a rostro, i piccoli occhi gelidi, la bocca come un taglio, il fisico massiccio da lottatore. Se c’è uno che ha il suo destino scritto in faccia quello è Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro, classe 1960, il Dillinger romano, protagonista di una serie di fughe, sparatorie, omicidi, sequestri, catture ed evasioni che fanno impallidire le imprese di Igor il Russo. Poliziotti e carabinieri sono avvisati: se trova un’arma, Johnny spara. Che fosse uomo d’evasione lo si sapeva da sempre e, a questo punto, il brano che il gruppo rock Gang gli ha dedicato sembra una sinistra profezia: «Venderà cara la pelle / Johnny non si arrenderà/ né finestre né mura né celle / mai potranno fermare / la sua libertà».
Una carriera criminale tutta in solitario che comincia da bambino quando Giuseppe Mastini si trasferisce a Roma con la sua famiglia di sinti giostrai. Furti d’auto, scippi, qualche rapina, classico apprendistato da malavitoso di mezza tacca. Ma Johnny ha una furia che gli brucia dentro: ancora non imputabile è coinvolto in una sparatoria con la polizia e a soli 15 anni uccide la sua prima vittima, il tranviere Vincenzo Bigi, assassinato per un orologio e pochi spiccioli il 30 dicembre 1975.
Due mesi prima, il 2 novembre, è stato ucciso a Ostia Pier Paolo Pasolini: Pino La Rana, poi condannato per l’assassinio dello scrittore, cercherà di tirare in ballo anche Johnny. Accuse mai provate, tutta fuffa. Per l’omicidio del tranviere invece lo Zingaro viene beccato quasi subito, finisce al minorile di Casal del Marmo ma ci resta solo due settimane. Il 2 febbraio del ‘76, assieme ad altri quattro giovanissimi detenuti aggredisce una guardia carceraria con un sostegno metallico svitato dalla branda e scappa. I rapporti degli educatori di allora parlano di «un’aggressività mai riscontrata in un ragazzo rinchiuso in questo istituto».
Il giorno dopo la fuga, braccato e circondato, si costituisce. Lo trasferiscono all’Aquila, fugge anche da lì, viene riacciuffato, trasferito a Pianosa e nell’81 è ancora uccel di bosco. Nell’83 lo acchiappano dopo un inseguimento sul Gra: in macchina ha un fucile a canne mozze, passamontagna, rotoli di nastro adesivo. Passano soli tre anni e ottiene un permesso premio. Tornerà in galera con due morti e una serie impressionante di rapine alle spalle.
È l’inizio della sarabanda di colpi a catena che daranno a Johnny lo Zingaro il nomignolo di “bandito del terzo turno” perché entra in azione durante il terzo turno di servizio delle volanti. Distributori di benzina, passanti, negozi, bar: a volte è solo, a volte assieme a una ragazza bruna e scarna, Zaira Pochetti, la sua fidanzata che morirà di anoressia dopo la cattura. L’8 marzo dell’86, armato di un revolver calibro 357 magnum, Mastini entra nella villa dei coniugi Paolo e Veronique Buratti, a Sacrofano. Un proiettile in testa al marito mentre la moglie, gravemente ferita, si salva per miracolo. Al processo, punterà il dito senza esitazioni contro Giuseppe Mastini, che ha sempre negato il delitto.
Poche ore dopo l’omicidio, assieme a Zaira, Mastini sequestra una ragazza di 20 anni, Silvia Leonardi, che sta chiacchierando col fidanzato in strada e, durante la fuga, trova il tempo di rivolgerle qualche profferta d’amore con una delicatezza da facocero: «E daje, mollo sta piattola de Zaira e se mettemo insieme».
La polizia lo sta tallonando con una serie di battute a cerchi concentrici e la fuga diventa convulsa. A notte fonda, due poliziotti del X Tuscolano notano la targa della Lancia rapinata al fidanzato della ragazza e lanciano l’allarme. Mastini li vede, inchioda, scende dall’auto e apre il fuoco: l’agente Michele Giraldi muore sul colpo, il suo collega, Mauro Pietrangeli, resterà menomato.
Johnny e Zaira puntano verso la Palmiro Togliatti, con la ragazza in ostaggio ma decidono di cambiare auto. Sul ciglio della strada è ferma un’Alfa 75. Il proprietario sta telefonando in una cabina. È un brigadiere dei carabinieri che, quando Mastini gli spiana contro il revolver, estrae la Beretta e spara. Johnny la scampa per un soffio. Qualunque persona di buon senso, a questo punto, darebbe forfait ma Lo Zingaro ragiona con la pistola, non col cervello. Assieme a Zaira, scappa verso Fontanile, nei pressi di Santa Palomba, dove spera di far perdere le sue tracce. Silvia Leonardi, nel frattempo, è riuscita a scappare ma ormai, per i due ricercati, era solo un peso.
Le ultime battute, pochi giorni dopo, sono al cardiopalma. Circondato da un esercito di divise, tra elicotteri a volo radente, cani, cavalli, uomini dei corpi speciali, Johnny si arrende dopo una convulsa trattativa con il vicequestore Antonio Del Greco: «Te lo prometto, se vieni fuori non ti spariamo». Ma quando finisce in manette, tra polizia e carabinieri che si contendono il merito dell’arresto, scoppia una rissa selvaggia: pugni, calci, armi spianate e uno strascico di polemiche che andrà avanti per mesi.
Arrivato in questura, Johnny lo Zingaro se la vede brutta: il cortile è gremito di poliziotti decisi a farsi giustizia sommaria. Per proteggerlo, Del Greco e Nicolò D’Angelo, allora capo della mobile e oggi questore di Roma prendono un sacco di botte. Il personale ricordo di chi scrive è un’intervista di molti anni dopo, per Repubblica, nel carcere di Badu e’ Carros. Johnny, al ricordo del poliziotto ucciso, piangeva. E forse pensava già alla prossima fuga.