la Repubblica, 3 luglio 2017
C’era una volta lo sceneggiato italiano
Gli adattamenti di classici della letteratura “alta” e popolare sono stati uno dei generi tipici della televisione italiana, fin dalle sue origini. Nella visione pedagogica e paternalista della Dc, la tv era soprattutto un mezzo di divulgazione, lo strumento per portare nelle case di italiani ancora in parte analfabeti la cultura più traducibile per le masse. Gli sceneggiati erano grandi biblioteche circolanti per immagini, anche se in realtà affidati in gran parte alla parola.
Dal 1954 in poi arrivano dunque nelle case degli italiani Il dottor Antonio da Giovanni Ruffini, Piccole donne, Cime tempestose eccetera. Girati in studio e dapprima con la regia in diretta, che li rendeva identici alle riprese degli spettacoli teatrali, altro grande genere dell’epoca. Negli anni Sessanta poi, anche con l’intervento di un montaggio più elaborato, il modello diventa meno teatrale.
Nella biblioteca televisiva degli anni Sessanta, a puntate, rinasceva lo spirito del feuilleton, davanti a Il caso Maurizius o Una tragedia americana, Dostoevskij o Ippolito Nievo, Verga o Jane Austen. Nascevano nuovi divi: Alberto Lupo nella Cittadella ( 1964), Andrea Giordana nel Conte di Montecristo ( 1966), Nino Castelnuovo e Paola Pitagora nei Promessi sposi, ( 1967), Loretta Goggi nella Freccia nera ( 1968). Con predilezione per le storie melodrammatiche, alta o bassa che fosse la fonte, e qualche affondo verso il mistero e l’avventura ( L’isola del tesoro, 1959, e tutti gli adattamenti da Stevenson in generale). Anche il giallo poteva essere meglio accetto se passava attraverso il filtro della letteratura: il Maigret di Gino Cervi, il Nero Wolfe di Buazzelli, I racconti del maresciallo con Turi Ferro; tutti antenati dei Montalbano e Coliandro di oggi.
Coloro che studiano l’evoluzione del pubblico osservano un fenomeno curioso: mentre lo spettatore cinematografico- tipo diventa negli anni del boom sempre più maschile (dalla stagione dei film strappalacrime con Nazzari si passa agli Ercole, alle commedie con Sordi o Gassman, agli spaghetti western), dall’altro lato il pubblico femminile, specie quello dei ceti medio- bassi, diventa pubblico televisivo. Potremmo dire che queste storie appassionanti, questi classici letteralmente addomesticati, erano fatti per Elena Greco e Lila Cerullo, le protagoniste dell’Amica geniale.
Con la fine del decennio il genere diventa più ambizioso, più sperimentale. Già un titolo come Il giornalino di Gian Burrasca ( 1965) di Lina Wertmüller, a rivederlo oggi, ha un’aria diversa, da musicarello en travesti.
Un punto di svolta è l’Odissea ( 1968) coproduzione fra quattro Paesi gestita da Dino De Laurentiis. Arrivano capolavori come Le avventure di Pinocchio ( 1972) di Comencini, e il ciclo si può idealmente chiudere con il Sandokan ( 1976) di Sergio Sollima, che riporta in vita il mondo di Emilio Salgari e rimane leggendario per decenni.
Nel frattempo, quel birichino di Ugo Gregoretti si dedicava ai suoi esperimenti come Il Circolo Pickwick o la serie di parodie- riletture di Romanzo popolare italiano.
Dopo la fine del monopolio e davanti al dilagare delle emittenti televisive private, invase da library di vecchi film, da cartoni giapponesi e da telefilm americani, gli sceneggiati tratti da romanzi sembravano passati di moda: titoli di qualità come Cuore di Comencini o La coscienza di Zeno di Bolchi sono superstiti di un’altra epoca, per non parlare dei famigerati Promessi sposi girati in inglese dopo il successo del Nome della rosa.
E a maggior ragione fuori tempo, al di là dei singoli successi, sono gli esempi Rai degli ultimi vent’anni. A volte tentativi più d’autore come Resurrezione dei Taviani, spesso nuove versioni di testi già portati sul piccolo schermo. Cime tempestose, La cittadella, David Copperfield: più che adattamenti di classici, remake di vecchi sceneggiati, operazione nostalgica per spettatori invecchiati ( qualche anno prima, su Canale 5 si era rifatto vivo Kabir Bedi nel Ritorno di Sandokan).
Negli anni Duemila anche le reti Mediaset hanno tentato saltuariamente il ritorno ai classici, puntando dapprima sul filone strappalacrime- adolescenziale (Incompreso, I ragazzi della via Pál, Cuore) e poi su quello in costume mélo o avventuroso, con un Renzo e Lucia “progressista” di Francesca Archibugi a ridosso di Elisa di Rivombrosa (che a sua volta, pur senza dichiararlo, era vagamente ispirato alla Pamela di Samuel Richardson). Tutto sommato un filone minoritario della tv, rispetto alle agiografie di padri della patria, eroi antimafia o boss sanguinari, ai mélo vintage lussuriosi e alle allegrotte soap familiari. Da questa tradizione si staccano due serie tra le più prestigiose degli ultimi tempi, Romanzo criminale e Gomorra, più che altro spin- off dei testi di partenza. Nel loro caso il richiamo a romanzi e film precedenti significa anzitutto un rimando tra media diversi che si potenziano e promuovono a vicenda: e addirittura il romanzo Suburra nasce come soggetto per una serie televisiva, momentaneamente abortita e poi rimessa in pista dopo aver fatto il giro dei media, passando anche per il film.
L’atteso adattamento della saga di Elena Ferrante sembra essere un caso a parte, qualcosa che potrebbe stare a metà tra una televisione nuovissima e il ritorno di quella antica. Una saga fortunatissima in quattro romanzi, e però un testo contemporaneo, mentre tradizionalmente lo sceneggiato si rivolgeva a titoli lontani nel tempo. ( Tra le poche eccezioni, La storia di Luigi Comencini, uscito una dozzina d’anni dopo il romanzo di Elsa Morante: ma lì era anche il romanzo della Morante a essere qualcosa di diverso nella nostra tradizione, anche per il rapporto col pubblico).
Tra l’altro, nella televisione popolare italiana d’oggi c’è già qualcosa che prelude alla serie più attesa del momento. In Un posto al sole, uno dei personaggi, il giornalista Michele ( Alberto Rossi), scrive romanzi sotto pseudonimo femminile e addirittura spinge la fidanzata Silvia ( Luisa Amatucci) a fingersi lei l’autrice. Lo pseudonimo dello scrittore è Grazia Rossellini, nome abbastanza morantiano- neorealista. Talvolta, nella soap, i personaggi stessi si trovano a ironizzare: «Siamo come Elena Ferrante».
Questa assunzione nell’universo delle soap è una conferma indizio della singolarità del “caso Ferrante”, e delle sue potenzialità per un pubblico televisivo. Eppure, se in apparenza i quattro romanzi sembrano già il canovaccio bell’e pronto di una serie, in realtà molto del loro fascino deriva da elementi squisitamente letterari: la voce narrante, il gioco tra italiano e dialetto rimosso, l’intreccio tra vicende private e sfondo storico, le psicologie minuziosamente spiegate.
Insomma, la serie televisiva dell’Amica geniale ( affidata a un regista di nome come Saverio Costanzo) avrà bisogno di uno sguardo forte, unificante, come tutti quei romanzi che a leggerli “sembrano un film”, e che in realtà sono difficilissimi da raccontare per immagini.