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 2017  luglio 03 Lunedì calendario

L’Ulisse siamo noi

C’è un canovaccio che impone ambientazioni fisse; per il resto su certi dettagli si può improvvisare creando ironiche variazioni. Il percorso è però abbastanza tassativo, sui luoghi non si transige: bisogna procurarsi una torre d’avvistamento esposta alle brezze marine, una robusta colazione irlandese tra letto e cucina mentre un gatto ti fa zig-zag tra le gambe, un cimitero, la redazione di un giornale in cui soffiano i venti inesausti della notizia, una biblioteca che conserva le opere dei padri, il bar di un albergo lungo il fiume con bellezze fascinose dietro il bancone, un pub frequentato da feroci nazionalisti, un ospedale (reparto Maternità), un vorticoso quartiere a luci rosse e infine una camera da letto buia come un utero, in cui si scatenano i desideri, la memoria scorre come un fiume in piena, le falle del presente trovano il loro riscatto finale. Non basta: sono indispensabili un trentottenne piazzista di annunci pubblicitari che rimugina sul tradimento della moglie facendosi distrarre nel suo cammino dai più vari pensieri casuali, poi un pingue sarcastico studente di medicina sempre con un lazzo sulle labbra, un giovane dall’aria melanconica ancora incerto sul suo futuro di poeta, una cantante passionale e capricciosa. Due di questi personaggi si cercheranno senza sapere di cercarsi, “unendo i puntini” sulla mappa, tra la folla brulicante di una città immersa nel suo irripetibile, eppure sempre uguale, “giorno qualunque”, per trovarsi e forse riconoscersi alla fine. In una ridda di annunci e manifesti, strilloni, scalpitii di cavalli al passaggio delle vetture, incontri casuali, cartelloni e insegne, gabbiani strepitanti sul fiume Liffey.
Non sappiamo se Bloom riuscirà a riconquistare Molly e a smetterla di pensare all’arrivo fatale del suo impresario, Blazes Boylan, alla porta di casa. Né se l’emaciato Stephen Dedalus, tormentato da fantasmi, sarà in grado di vedere in Bloom il padre che forse cerca. Tutto sfocerà in ultimo, senza concludersi, nella voce avvolgente di una Molly-Natura capace di abbracciare le vite di tutti nel dire il suo sì a quel che esiste. La mappa è quella di Dublino così come Joyce, maestro di cinema mentale e scrittura elettrica, l’ha immortalata nell’Ulisse con la sua “macchina da prosa” (per dirla con Gabriele Frasca). Ogni anno, il 16 giugno, oltre che nella capitale irlandese dove Bloomsday è quasi una festa nazionale, la piccola odissea urbana di Joyce viene ripercorsa e rivissuta in tante città del mondo (fra cui Parigi, New York, Shanghai, Mosca, San Paolo); anche in Italia gli appassionati si danno appuntamento nei vari Bloomsday organizzati in città come Trieste e Genova, principali scenari di questa tradizione. Bloomsday è il giorno di Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse, l’everyman che in diciotto ore del 16 giugno 1904 (un’ora per ogni episodio del romanzo) compie esperienze interiori bastanti per una vita: semplice eroe della curiositas, nel viaggio quotidiano tra le voci della città attraversa mari infestati da mostri, sirene e ciclopi. A novantacinque anni dall’uscita del libro che avrebbe tentato di rivoluzionare le strade del romanzo, facendola finita col falso realismo e con le retoriche della narrazione borghese, colpisce vedere che anche in Italia Joyce è una passione condivisa.
A Dublino (dove il Bloomsday è nato nel 1954, a tredici anni dalla morte dello scrittore) ci si veste a tema, tornando alla moda di prima della Grande guerra: si riesumano pagliette, baffi arricciati, bastoni da passeggio e ampi abiti da donna con cappelli a larghe volute, e si può approfittare persino di un “kit di sopravvivenza al Bloomsday” appositamente distribuito. A Genova, dove il Bloomsday è ormai un appuntamento storico, si tiene da anni la lettura integrale dell’Ulisse curata da Massimo Bacigalupo. Agguerriti, preparatissimi lettori salgono sul Castello-Museo D’Albertis, davanti al panorama del golfo e del porto, pronti alla staffetta per leggere sotto le merlature ghibelline il celebre incipit, in cui Buck Mulligan si appresta al rito mattutino della sbarbatura di fronte a uno spaurito Stephen. Fanno la fila, ciascuno stringe la sua copia dell’Ulisse, in tre diverse e coesistenti traduzioni in italiano: alcuni sono insegnanti, scrittori, librai, devoti del culto joyciano che come ovunque ha i suoi adepti, abituati a riconoscersi per segni bizzarri, ma anche gente che è stata colpita da un personaggio, dal lampo di una frase (“La paternità è una condizione mistica”, o “la storia è l’incubo da cui sto cercando di svegliarmi”). La sorpresa è vedere tanti ragazzi, studenti, alcuni provenienti da ambiti del tutto lontani dalla letteratura; in molti dicono che Ulisse, un libro a torto considerato appannaggio esclusivo di eruditi e accademici per la sua difficoltà, gli ha cambiato la vita e ha parlato direttamente all’eroe joyciano che si nasconde in loro. Caterina Dell’Anna vorrebbe fare la traduttrice: «Joyce è grandioso, e all’università ho imparato come tutto quel che scrive sia composto di molti strati, più di quanto si pensi». Per Silvia Olmi, studentessa prossima alla laurea, «questa lettura itinerante dà fisicità a un testo così ricco e fa arrivare anche noi alla nostra epifania». Un’altra ragazza, Rosanna Villa, legge al Bloomsday «per vivere un giorno nei panni di un altro, in un progetto che trasforma la città stessa in altro». Un’esperienza comune e condivisa, un “viaggio mentale” per ritrovare se stessi, secondo Larisa Levonyan. Alberto Aimo, studente di Teorie e tecniche per la mediazione interlinguistica, pensa che l’Ulisse sia «incredibilmente sottovalutato dai giovani», che non ne colgono la forza innovativa, «la capacità di farti viaggiare in un mondo inesplorato, il flusso di pensieri della mente umana». Dal Bloomsday salernitano, curato da Bruna Autuori e quest’anno vestito di nero (Eboli ha accolto attori e pubblico del funerale di Paddy Dignam, dall’episodio di Ade), fa eco la voce di Jacopo Abagnara, giovane grafico: «Ho iniziato a leggere Ulisse perché mi identificavo con Stephen Dedalus, conosciuto proprio grazie agli attori del Bloomsday». La sintesi più spiazzante la offre sempre da Salerno Chiara Covino, che studia Animazione allo Ied di Roma: «Leggo Ulisse perché Bloom sono io e perché lo trovo molto più comprensibile di quanto pensassi». Insomma, l’Ulisse sta conquistando i giovani. Si direbbero appuntamenti col destino. Aveva ragione allora Anthony Burgess, l’autore di Arancia meccanica profondo ammiratore di Joyce, nel dire che la diatriba sulla pronuncia esatta di Ulysses andava risolta mettendo l’accento sulla U: “perché sei tu (‘you’) a essere importante”.
Trieste non propone letture dal vivo, ma, con la cura di Riccardo Cepach e Renzo Crivelli, ben tre giorni di eventi teatrali, laboratori, conferenze, percorsi guidati che attraversano la città in cui Joyce ha vissuto quasi dieci anni con compagna e figli e che per lui era una seconda Dublino: in via San Nicolò c’è la casa dove è nato il primo figlio, Giorgio; in via Diaz (allora via della Sanità) quella dove ha iniziato a scrivere gli episodi più rivoluzionari di Ulisse. Davanti alla chiesa di Sant’Antonio Taumaturgo staziona un curioso autobus, il Joyce Buseum; all’Istituto Revoltella, dove grazie ai buoni uffici di Italo Svevo Joyce trovò un posto da insegnante, è andato in scena Nora Joyce: l’altro monologo, di Renzo Crivelli con Sara Alzetta, mentre Edoardo Camurri ha parlato di Joyce, la schizofrenia e la modernità. I ragazzi di un centro Asl per le dipendenze giovanili – per loro “casa” è tutt’altro che un porto sicuro cui fare ritorno – hanno curato una rappresentazione ispirata a Itaca, l’episodio in cui Bloom e Dedalus compiono il loro nóstos domestico. La Trieste Joyce School di John McCourt e Laura Pelaschiar è giunta ormai al ventesimo anno. Con le sue giornate di studio estive offre a tutti l’occasione di dialogare con le figure chiave dell’esegesi joyciana, in uno spirito di condivisione che, abbandonate le sedi istituzionali, si riversa in discussioni spesso infuocate nelle osterie triestine. Proprio il 16 giugno si sono inaugurati Notre Dame University Seminars di Roma coordinati da Barry McCrea. Ma le passioni joyciane in Italia non si fermano qui. Fioriscono, sull’esempio di quel che già accade a Dublino, Leeds, Zurigo, Austin, gruppi di lettura come quello di Perugia, in cui studiosi, appassionati, curiosi si scambiano pareri e interpretazioni scandagliando brani scelti dell’Ulisse. A Roma, molto viva, la Joyce Italian Foundation di Franca Ruggieri raccoglie esperti e amatori promuovendo ogni anno un convegno aperto sia ad accademici che a studiosi indipendenti. Memorabile qualche anno fa la partecipazione di Umberto Eco, che fra l’ilare sconcerto dei presenti ricordò come in epoca fascista l’Ulisse fosse stato accolto come un testo osceno e scabroso, scritto, secondo i commentatori di quegli anni, da “un ebreo di sette cotte”. Ma i libri di Joyce continuano a parlare la lingua plurale della tolleranza e della democrazia. Declan Kiberd, uno dei suoi più grandi studiosi, ha paragonato l’Ulisse a un manuale aperto a tutti che ci fa scoprire l’arte del vivere quotidiano: un’arte fatta di pazienza, saggezza pratica, ironia e capacità di sdrammatizzare. Forse non saremo tutti Bloom, ma certo, di questi tempi, non possiamo non dirci joyciani.