Corriere della Sera, 1 luglio 2017
La diplomazia «indifferente» dell’amministrazione Trump
Gli ambasciatori degli Stati Uniti sono inviati personali del presidente. Alcuni appartengono alla carriera diplomatica e possono conservare la carica anche dopo la elezione di un nuovo capo dello Stato, se gli sono graditi. Ma le regole e la tradizione vogliono che i capi delle missioni diplomatiche si dimettano per consentire al nuovo arrivato di scegliere la persona che sembra meglio rispondere alla politica estera della nuova amministrazione. Dobbiamo supporre che questo sia accaduto anche dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma il nuovo presidente non ha fretta. Come è stato ricordato in un’altra occasione, la distribuzione dei poteri fra il presidente e il Congresso gli permette di nominare, dal momento in cui assume le sue funzioni, circa 4.000 persone, tra funzionari di vario grado e magistrati federali. Ma il numero della caselle vuote, a poco meno di sei mesi dal giorno del giuramento è ancora piuttosto elevato
Il caso degli ambasciatori è particolarmente interessante. Come ha ricordato Franco Venturini sul Corriere del 29 giugno, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma è ancora quello nominato a suo tempo da Barack Obama. Ma l’Italia non è una eccezione. Alla fine di giugno, poco meno di sei mesi dopo il giuramento, Trump non aveva ancora nominato i rappresentanti degli Stati Uniti presso la Commissione europea di Bruxelles, l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’Unesco, gli uffici europei delle Nazioni Unite. Il 27 giugno i soli Stati dove fosse arrivato un nuovo ambasciatore americano erano il Belgio, il Portogallo e la Santa Sede
I vuoti verranno colmati, prima o dopo, ma è probabile che questa indifferenza ai rapporti diplomatici con molti Paesi e istituzioni non sia casuale. A Donald Trump le organizzazioni internazionali, l’Unione Europea e le maggiori democrazie del Vecchio Continente non sono congeniali. Hanno sistemi politici, tradizioni culturali e ambizioni unitarie che le rendono estranee alla cultura politica del nuovo presidente. Gli interlocutori preferiti di Trump sono quelli che dispongono di grandi poteri personali e li esercitano con grande autonomia. Vi sono probabilmente altre ragioni. Trump viene dal mondo degli affari e ha evidenti ambizioni politiche, ma non ha le esperienze e le conoscenze di chi ha frequentato i corridoi e le anticamere della politica durante una buona parte della sua esistenza. Per nominare un ambasciatore o un direttore generale deve affidarsi ai suggerimenti di un consigliere; ma è ossessionato dal timore di avere collaboratori non assolutamente leali; e quando deve scegliere fra un militare e un civile, sceglie spesso il militare. Ha fatto anche nomine civili, come nel caso del Dipartimento di Stato, per cui ha scelto Rex Tillerson, già amministratore delegato di Exxon Mobil, una delle maggiori aziende petrolifere del mondo. Lo ha scelto, presumibilmente, perché aveva una considerevole esperienza medio-orientale. Ma dopo avergli affidato il più importante dei dicasteri americani, ha chiamato accanto a sé il marito di sua figlia, Jared Kushner, e ne fatto la sua eminenza grigia per i rapporti con l’Arabia Saudita e Israele.
Trump non è il primo presidente americano che preferisce servirsi di un consigliere privato piuttosto che di un servitore dello Stato. Durante i negoziati di pace, alla fine della Grande guerra, Woodrow Wilson prestava attenzione ai consigli del colonnello House piuttosto che a quelli del segretario di Stato Robert Lansing. A giudicare dai risultati, soprattutto per i rapporti con l’Italia, la scelta non fu felice. Ma Wilson aveva una grande reputazione e un brillante passato accademico, mentre Trump è soprattutto un grande venditore delle due merci che sa fabbricare con maggiore profitto: il lusso e lo svago. Per gli alleati degli Stati Uniti non sarà facile parlare di politica internazionale con il nuovo inquilino della Casa Bianca.