il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2017
Il biondino dalle mani bucate (e sempre in fuga). La morte a 82 anni dell’ex presidente del Milan Felice Riva, simbolo quasi parodistico dell’industriale lumbard anni 60, sfrenato edonista e scialacquatore
Lunedì 26 giugno è morto l’ex re del cotone Felice Riva, a Camaiore, dove da tempo risiedeva, ormai al sicuro da manette, tribunali e creditori: il suo incubo. Aveva appena 82 anni. Per tre stagioni era stato anche presidente del Milan, quello mitico di Rivera, Amarildo ed Altafini e della Coppa dei Campioni conquistata a Wembley nel 1963 contro il Benfica di Eusebio pochi mesi prima che Andrea Rizzoli glielo vendesse. “Non capiva un’acca di calcio, ma era simpatico”, è stato il lapidario epitaffio del vecchio centravanti José Altafini che ci litigò per via di un controverso rinnovo contrattuale.
Il cordoglio del Milan si è concretizzato in uno scarno, formale e imbarazzato comunicato, in cui si legge che “le cronache lo ricordano alto, biondo, affascinante, milanista, anche se purtroppo al centro di problemi finanziari che lo portarono a vivere in Libano lasciando il Milan comunque in buone mani, quelle della famiglia Carraro”.
A scanso di equivoci, è scritto subito dopo in questo capolavoro d’omissioni, Felicino Riva fu “giudicato non punibile dal Tribunale di Milano”. Peccato che la Gazzetta dello Sport, abbia invece titolato senza tanti complimenti: “Addio Felice Riva: una vita tra lussi, fughe ed imbrogli”,.
Già. Un addio in sordina: appena sei necrologi sul Corriere della Sera, compreso quelli dei familiari e degli amici Moratti. L’oblio di una Milano dalla memoria corta. Eppure Felicino aveva animato la vita mondana e le cronache giudiziarie milanesi degli Anni Sessanta, diventando una sorta di simbolo quasi parodistico dell’industriale lumbard. Sfrenato edonista e sperperatore indomito, è stato un grande protagonista di serate e feste, amava la Versilia d’estate, dove sfoggiava uno yacht imponente e tre motoscafi, uno dei quali Riva, il suo preferito e non soltanto per l’omonimia.
Incarnava l’archetipo del cutunat, i cotonieri che sfoggiavano soldi e volgarità. Suo padre Giulio (detto il “mangiafuoco della Borsa”) morì all’improvviso nel 1960 – un’operazione d’appendicite tragicamente letale – e lui, fresco ragioniere a prezzo di faticosi studi al Leone XIII, l’istituto gestito dai gesuiti dove i figlioli della nuova borghesia rampante venivano parcheggiati, si ritrovò tra le mani bucate un impero industriale tra i più importanti della Padania, il gruppo tessile Cotonificio Vallesusa che voleva dire 30 stabilimenti e 15 mila dipendenti. Un marchio familiare per gli italiani, abituati a vedere Mario Carotenuto interpretare la serie Nato con la camicia su Carosello dal 1959 al 1963.
In appena cinque anni l’incompetente Felicino, con sventate operazioni finanziarie, provocò un colossale dissesto. Ottomila operai rimasero per strada, il buco accumulato dalla sua scapestrata gestione fu di 46 miliardi di lire: un’enormità che oggi equivarrebbe a quasi 500 milioni di euro.
Nel 1969 l’arrestarono all’uscita di un cinema. Era stato condannato a 6 anni per bancarotta fraudolenta, ma la Cassazione annullò l’arresto per vizio di forma: qualcuno aveva dimenticato di sequestrargli il passaporto. Pochi giorni prima, gli operai che un tempo lo adulavano quale “figlio del sole” perché era bello e biondissimo, gli avevano lanciato sul palco, durante la Forza del destino, dei volantini inequivocabili: “Rag. Riva, il tuo posto non è alla Scala, a ma a San Vittore”. Appena rilasciato se la svignò: prima in Costa Azzurra con capatine a Parigi, poi in Grecia e a Beirut, allora il paradiso fiscale del Mediterraneo. Anzi, la Svizzera d’Oriente. Ci resterà 11 anni. Non sempre rose e champagne. A Beirut venne incarcerato per 50 giorni e subì lesioni che lo costrinsero a un doloroso intervento. La moglie Luisella Stabile lo abbandonò dopo un anno di vita in piscina tra le hall dei grandi alberghi libanesi. Era scappato (portandosi dietro un miliardo di lire in azioni) inseguito da mandati di cattura e da beghe familiari: fratello e sorella l’avevano denunciato, alla morte del padre, per sottrazione di gioielli, sottrazione di eredità e furto. E poi, il ritorno in patria. Misterioso, per via di un provvidenziale passaporto libanese emesso nel 1974.
Siamo nel 1982. Nel Libano infuria la guerra civile e non è più un rifugio sicuro. Ma, in Italia, grazie a condoni e amnistie, il curriculum giudiziario di Felicino si è azzerato. E con un profilo discreto, si rifugia nella sua amata Versilia: niente Ferrari, ma bicicletta. Mantiene contatti stretti solo con le figlie Carlotta e Raffaella, musicista (ex della band Gruppo Italiano e collaboratrice di Gianna Nannini). Il vecchio palazzo di famiglia, con la piscina sotterranea è finito ad Armani. Che del cotone ha fatto arte. Vedi gli incroci del destino.