il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2017
Jbrock*: «Il graffitista non è un criminale ma un artista, anche da museo»
Non so se anche voi vi ricordiate quando, nel corso della vostra vita, avete iniziato a interrogarvi sul confine, più o meno labile a volte, fra legalità e illegalità.
Io credo di essermi posto questa domanda per la prima volta in maniera conscia a 10 anni, o forse prima, comunque subito dopo aver letto una frase accompagnata da colori acidi, disegni spettacolari e caratteri mozzafiato che riportava “Skateboarding is not a crime”.
Anni più tardi, quando dopo essere stato influenzato da quell’estetica avevo già iniziato a lasciare il mio segno sulla società, sapevo di stare facendo qualcosa di illegale – scavalcando recinzioni e cancelli o attraversando binari per andare a dipingere – ma non ho mai avuto la percezione vera e propria di compiere qualcosa di illecito né di essere diventato a tutti gli effetti un criminale.
Provo a spiegarmi meglio. Il Cristianesimo è stato un tempo considerato un culto illegale: ma che differenza c’è per la fede nell’essere professata nella legalità o nell’illegalità? La feste techno nelle fabbriche abbandonate degli anni Novanta erano illegali, ma la musica che i Dj vi suonavano in cosa differiva da quella che potevano suonare in altri contesti? E ancora, non erano forse segni di riconoscimento, per chi aveva fatto dell’illegalità una scelta di vita, i tatuaggi? Eppure oggi sono all’ordine del giorno e vengono identificati più come uno status symbol che un messaggio di appartenenza… Fino a ritornare lì dove la domanda ha avuto inizio, almeno nella mia esistenza: lo skateboarding ieri veniva considerato illegale, oggi entra ufficialmente a far parte dei Giochi Olimpici.
Molti si – o mi – chiedono come vivo il passaggio tra l’illegalità della mia ricerca su strada e la legalità della stessa dentro un museo. Non è cambiato nulla per me, ma è cambiato intorno a me, è cambiata la percezione del pubblico, forse proprio tramite quello che io e altri abbiamo fatto, nel tempo e nell’illegalità. Avere ricevuto l’invito dal curatore Paulo von Vacano a esporre il mio lavoro in una mostra come “Cross the Streets” all’interno del Macro, Museo d’Arte Contemporanea di Roma, mi fa pensare che sono arrivato a lasciare il mio segno nella società.
Questo significa che sono riuscito a portare avanti la mia ricerca qui, nella mia adorata città eterna, la capitale d’Italia, città dove sono nato, senza avere dovuto migrare come hanno fatto tanti altri verso realtà dove il venire riconosciuti è molto più semplice e oggi, dopo 25 anni e dopo aver svolto per vivere praticamente ogni tipo di lavoro – dal lava bicchieri al volantinaggio, dal facchino fino all’attacchino per le campagne elettorali, tutti lavori di fatica ovviamente retribuiti in nero – il fatto di non venir più considerato un criminale ma un artista è veramente una grandissima soddisfazione per me, che mi porta a concludere augurando a tutti voi di riuscire nei vostri intenti e di seguire le vostre idee, forti della vostra forza di volontà.