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 2017  luglio 01 Sabato calendario

Estorsioni, spari e tentati omicidi per ribadire la propria forza

Chivasso, Leini, Settimo: il «triangolo della paura» è una fetta stretta di provincia torinese. Qui ci sono i clan che non tramontano. Famiglie che sopravvivono alle inchieste e alle ondate di arresti. Rampolli e figli d’arte della criminalità organizzata che succedono ai padri per scalare i vertici delle ’ndrine e ristabilire il controllo sul territorio. Controllo ininterrotto, capillare e violento, per riconfermare quel potere messo in discussione prima dalle istituzioni, poi dai rivali. E qui, dopo cinque anni di indagini, i carabinieri hanno arrestato 11 persone. Sedici in tutto i nomi finiti nel registro degli indagati. Vecchi nomi legati alle organizzazioni mafiose e i loro successori, sopravvissuti a alle maxi-operazioni Minotauro e Colpo di Coda. In carcere sono finiti capi e sodali delle famiglie Ilacqua, Gioffrè e Guerra.
Con la forza
Quello dei carabinieri è stato un lavoro paziente. Intercettazioni telefoniche, appostamenti e indagini faticose sui delitti che hanno insanguinato la primavera e l’estate 2012. Quattro tentati omicidi, tre dei quali poi derubricati in lesioni. Colpi di pistola, spesso sparati alle spalle, contro chiunque non si piegasse al loro potere. Contro chi non pagava oppure chiedeva indietro il denaro prestato. È l’errore fatto da Valentino Amantea, prima vittima e poi indagato, raggiunto da un proiettile che lo ha reso paraplegico.
Il mandante era sempre lo stesso, Pietro Domenico Ilacqua, il boss indiscusso deceduto in un letto d’ospedale nell’ottobre dello stesso anno: infarto. Dopo di lui, il lavoro è stato portato avanti da figli e familiari. E da Antonio Guerra, uomo d’azione, che quattro anni fa sparò contro le vetrine del negozio di un dirigente del Settimo Calcio. Il motivo? Suo figlio non scendeva abbastanza in campo, sembrava non essere gradito dalla squadra.
«Noi ci siamo»
Ecco come nasce la paura. Perché non è questione di Nord e Sud. Le minacce, le estorsioni, le aggressioni spaventano chiunque. È il silenzio di comunità spaventate, e non complici, che non accettano di essere associate alla parola omertà. «Noi ci siamo e ci sono i carabinieri», ha ripetuto l’altra mattina il sostituto procuratore Monica Abbatecola, che coordina le indagini dell’operazione «Panamera», dal nome della Porsche da 90 mila euro sequestrata a Giovanni Mirai insieme ad orologi di lusso, alloggi, otto autolavaggi e conti correnti per un ammontare di quasi trecentomila euro.
«All’inizio la paura ha smorzato qualsiasi collaborazione – ha spiegato il pm -, ma siamo qui per ascoltare le persone e raccogliere tutto quello che sanno. Per continuare a proteggerle e per corroborare le ipotesi investigative».