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 2017  luglio 03 Lunedì calendario

Da Bompiani alla Nave di Teseo, Elisabetta Sgarbi: «Non siamo una specie in via di estinzione»

Uno dei primi libri che curò per Bompiani, giovane redattrice, fu il Frasario essenziale per passare inosservati in società di Ennio Flaiano. Le torna in mente ora che le chiediamo che cos’è per lei il mestiere di editore. «È mediare tra due mondi: uno è il mercato, fatto di regole e risultati, leggi e soldi; l’altro, impalpabile, è la creazione artistica, incerta. L’editoria è il paradosso di una costruzione molto complessa poggiata sull’immateriale. Ovvero, per citare Flaiano, “con i piedi ben poggiati sulle nuvole”».
Le nuvole di Elisabetta Sgarbi oggi sono La nave di Teseo, ma per molti anni si sono chiamate Bompiani, dove entrò nel 1990 e bruciò le tappe fino al ruolo di direttore editoriale. Fa molte cose, come si sa: per esempio è regista in proprio, per esempio organizza la Milanesiana. Nel 2015, quando l’intera Rizzoli libri venne acquisita da Mondadori, se ne andò, assieme ai suoi più stretti collaboratori e a parecchi autori, per dare vita alla nuova sigla: in quello che sembrava il momento peggiore.
I fatti le stanno dando ragione proprio quando molti cominciano ad accarezzare l’idea che il ruolo dell’editore si stia esaurendo, nell’era dei social, messo all’angolo dall’utopia di un contatto non mediato tra autore e lettore. Come si sente davanti a uno scenario del genere? «Bisogna capire cosa si intende per editore», risponde: «la grande azienda (che pure ha ovviamente una motivazione) oppure la persona cui l’autore si riferisce costantemente, nei suoi alti e bassi? Secondo me l’editore che serve è quello che, con continuità, crede nell’autore, nelle sue imprevedibili vicende. Questa figura sta diventando una rarità».
Absolute beginners
Mentre dilaga «l’aziendalismo impersonale, anche nella stessa personalità di giovani editor. Ma se parliamo di realtà così impersonali, ce ne sono altre – come Amazon – che in questo campo sono molto più attrezzate». Bene, abbiamo capito. Lei non si sente in via di sparizione, gli altri chissà. Intanto la nuova casa editrice si è impetuosamente espansa, per esempio acquisendo Baldini & Castoldi e aprendo Oblomov.
«Impetuosa espansione mi sembra eccessivo, quando c’è un editore che ha il 35% del mercato. La nave di Teseo – e, sottolineo, i suoi illuminati – ha fatto questa scommessa: perché disperdere un patrimonio di autori e una storia? Baldini ha le potenzialità per scoprire autori e valorizzare quelli che ha. Così come Oblomov è una nuova casa per il graphic novel, con Igort. Si tratta di dare energie nuove alla editoria». È noto come il nome sia stato scelto da Umberto Eco, che stava per morire ma incoraggiò l’impresa in modo decisivo. Era già il nume tutelare della Bompiani. Quanto è stato importante per lei? «Vede, Eco ha cambiato la Bompiani. L’ha resa una casa editrice planetaria. Nel mondo veniva esaltato il suo genio di saggista e narratore».
Ma era anche un vero editore. «Aveva dato corpo al catalogo della casa editrice. Ed era un redattore implacabile: alle cene con noi, non mancava di portare i libri che pubblicavamo, segnalando e irridendo gli errori. Era capace di una tenerezza e fedeltà assoluti». Non è stato il solo maestro. Ogni editore ha la sua storia plurale. Nel pantheon di Elisabetta Sgarbi c’è anche Gianantonio Cibotto, lo scrittore veneto (che di fatto inventò il Campiello): fu lui a indirizzarla, giovanissima, a una casa editrice di Pordenone, Studio Tesi, dove tutto cominciò. «È stato il primo. E poi Mario Andreose [suo predecessore alla Bompiani, ndr]: ma aggiungerei Enrico Ghezzi, che continua a scoprire mondi fantastici. Credo di essere ricettiva e di imparare dalle persone che lavorano con me». Che cosa ha imparato in particolare? «Che siamo sempre absolute beginners, per citare Bowie».
Anche perché, pubblico a parte, ogni autore è diverso. Il mestiere dell’editore è anche capirlo al volo, aiutarlo, magari affascinarlo. Ci sono storie tormentate. Per esempio con Andrea De Carlo, che ha appena dato alla Nave 15 titoli del suo catalogo (usciranno da novembre) dopo complessi andirivieni tra Bompiani e altri, e infine un lungo silenzio. «In tutti i mesi in cui non ci siamo sentiti, dalla fine di novembre del 2015 fino a qualche settimana fa, ho letto tutte le sue dichiarazioni, per capire se c’era risentimento o restava l’amicizia. E ho sempre coltivato la speranza di ritornare a lavorare con lui».
«Mio fratello, sua sorella»
Ci sono storie di ammirazione a distanza che poi si sciolgono all’improvviso: «Con Alberto Moravia ero una giovane redattrice, silenziosa e diligente», persino intimidita. «Lo frequentai di più in occasione del libro a quattro mani scritto con Alain Elkann: mi vezzeggiava dicendo a mio fratello Vittorio – già ampiamente noto e enfant prodige - che era lui “mio fratello”, ribaltando il cliché che mi voleva “sua sorella”». Ci sono storie di divertente follia. Carmelo Bene la trasformò in una Penelope. «Notti intere all’Hotel et de Milan a disfare i libri che componevo di giorno. Ne abbiamo fatto uno di componimenti poetici, ’l mal de’ fiori (nel 2000), del tutto fuori formato perché, diceva Carmelo, nella collana cui era destinato “si volta troppo pagina”».
Chissà come reagirebbero, oggi, gli «impersonali». Ma hanno altri pensieri: per esempio, pescare freneticamente nella rete personaggi con molti followers e farne bravamente degli autori, a volte con un certo successo commerciale. Vale la pena? «Ci sono linee editoriali che possono e debbono contemplare questi autori. L’editoria non è un blocco monolitico, i libri cambiano il mondo ma si nutrono del mondo. Il tema è la pluralità della offerta: bisogna mantenere viva la letteratura, ristampare i classici, rischiare su scrittori più complessi; e sì, anche cogliere fenomeni così larghi e profondi come questi».