Pagina99, 30 giugno 2017
Addio Google, il futuro è negli abbonati
Walter Lippmann osservava nel 1922 che «ci sono settori del popolo sovrano che impiegano gran parte del loro tempo libero e dei risparmi andando in automobile e confrontando le automobili, giocando a bridge e discutendo poi le partite. Non si può dire che essi davvero soffrano a causa della censura, o del segreto o dell’alto costo o della difficoltà della comunicazione. Il loro non è un problema di accesso al mondo esterno; mondi interessanti attendono di venir esplorati da loro, ma loro non vi entrano». A cosa servono e a chi si rivolgono allora i giornali?
Se si sostituisce «bridge» con «calcetto», il ritratto del pubblico sembrerebbe stilato questa mattina; eppure qualcosa di profondo deve essere cambiato negli ultimi 95 anni – e in peggio – se ai tempi di Lippmann le redazioni nascevano e gli editori dei quotidiani prosperavano, mentre oggi gran parte delle testate si scontra con il crollo dei fatturati e delle copie distribuite. Secondo il report sullo Stato dei Media pubblicato dal Pew Research il 1° giugno, dal 2013 la circolazione dei giornali è precipitata in America sotto la quota registrata nel 1940, primo anno di censimento del dato. Per il 2016, la stima degli incassi pubblicitari si ferma a poco più di 18 miliardi di dollari, con una perdita di oltre due miliardi rispetto all’anno precedente – e una flessione di 31 miliardi rispetto al 2005, quando il settore toccava l’apice del successo, grazie a una raccolta di 49,43 miliardi. Tra il 2011 e il 2016 il contributo del segmento online sul totale del fatturato è cresciuto dal 17% al 29%; ma l’incremento dipende dalla catastrofe della carta, più che dall’espansione dei valori assoluti de digitale. L’agenzia eMarketer stima che ne 2016 Facebook e Google abbiano rastrellato i 60% della spesa in pubblicità su pagine elettroniche nel mondo intero; ma l’opinione d Jason Kint, che analizza i dati dell’Interactivt Advertising Bureau (Iac), è che almeno l’85% degli investimenti in comunicazione commerciale su internet sia stato intercettato dai due giganti della Silicon Valley.
• La carta stampata divorzia dal web
La funzione dei giornali somiglia a quella dei motori di ricerca e dei social media, al punto da rendere possibile la sostituzione nelle abitudini dei lettori in meno di dieci anni? Suzi Watford, direttrice marketing del Wall Street Journal, ha dichiarato in un’intervista, rilasciata il 4 giugno a Bloomberg, che a quattro mesi dall’uscita della testata dal programma «First click Free» (Fcf) di Google, la versione online del quotidiano ha perso il 44% delle visite veicolate dai motori di ricerca. Secondo il servizio Similarweb, questo valore equivarrebbe a oltre 17 milioni di accessi al mese. Fcf è lo schema di accordo che Mountain View stipula con i giornali che rilasciano contenuti a pagamento, per assicurare alle loro pagine la permanenza nei listati di risposte. Di regola, Google non archivia una versione dei documenti più estesa, o comunque diversa, da quella che gli utenti possono esaminare liberamente all’indirizzo elencato nei risultati; le manipolazioni escogitate dagli editori per aggirare questo vincolo sono classificate (e condannate) come cloacking. Per i giornali è stata ammessa un’eccezione – purché all’utente, che raggiunga la pagina della notizia da Google, sia concessa una prima consultazione gratis dell’intero documento. Ora, anche sul Wsj, si è abbattuta la penalizzazione del cloacking-. no click free, no party.
A suo modo, la mancanza di riguardi da parte di Mountain View nei confronti del patriziato editoriale, può apparire come un sintomo di democrazia. Ma lascia anche presentire la tirannia che la Silicon Valley esercita su tutto il settore dei giornali: Fcf è solo un esempio della pressione applicata sull’industria delle notizie, per farle rientrare nei flussi predisposti da Google News, dal News Feed di Facebook, da Apple News. Gli oligarchi dei dati sostengono una nuova concezione dell’informazione, secondo cui i contenuti devono essere profilati sulle preferenze del lettore e sulle abitudini dei suoi amici, dissezionati dall’impaginazione cui erano destinati dalla redazione, e immersi nella corrente di post e di comunicazioni iscritta sulla bacheca del social network, nel canale di interazione del sistema operativo, o dell’assistente intelligente. Ai lettori piace accedere a notizie che non contraddicano la propria visione del mondo, e quella degli amici stretti: e così sia – parola di Google.
• Stretta sulla pubblicità
A questo scopo, con decisioni annunciate quasi all’unisono (il 1° e il 5 giugno), Mountain View e Apple si preparano a inserire nei browser Chrome e Safari un dispositivo ad blocker: in altre parole, nel software utilizzato (secondo StatCounter) da oltre due terzi dei dispositivi per navigare in Rete, a partire dalla fine del 2017 sarà iniettato un programma che cancella gli annunci pubblicitari dalle pagine visualizzate dagli utenti. Questa decisione potrà suscitare il plauso di chi è turbato dallo sfarfallamento dei banner, che inquinano di immondizia cerebrale le schermate di tutto il mondo; ma al contempo prosciugherà le poche risorse di sostentamento per i giornali online. Fino ad oggi, il caricamento di un ad blocker sul browser del computer, o del cellulare, era l’effetto di una risoluzione facoltativa dell’utente. Le stime discordano sul successo riscosso da questo dispositivo ma, secondo lo lab, in Europa l’adozione si sarebbe fermata sotto il 30% dei computer, mentre negli Usa si collocherebbe intorno al 34%; già così, secondo l’Association of Online Publishers (Aop), nel Regno Unito le testate maggiori starebbero perdendo in media 2 milioni di sterline ogni anno, per mancati guadagni pubblicitari – mentre quelle minori conterrebbero il passivo intorno al mezzo milione. I sovrani dell’informazione della Silicon Valley gettano la maschera: sono decadute tutte le alternative ai processi di distribuzione dell’informazione previsti da Google, Apple, Facebook, Microsoft. Après moi, le déluge.
• Non restano che gli abbonati
L’unico dato in controtendenza è rappresentato dalla crescita – per quanto limitata – degli incassi da abbonamento: qui si apre uno scorcio sulle ragioni della scelta del Wsj. Il reddito derivato dalle sottoscrizioni è passato dai 10,4 miliardi di dollari del 2015, ai 10,9 del 2016: il gruppo di testate che sta abbandonando il dominio degli accordi con i giganti tech, è quello che conta di sopravvivere grazie a questa risorsa. L’elenco include anzitutto i principali giornali economici del mondo: insieme al Wsj sfilano Financial Times, The Economist, Bloomberg Businessweek, Business Insider, che al momento comunque non hanno ancora abbandonato la formula del Fcf di Google (il gruppo Bloomberg però ha già disertato la piattaforma Instant Artide di Facebook e quella di Apple News). Si aggiungono i nomi che si sono specializzati nella copertura dell’informazione politica, Politico, Axios, The Information, più le testate di massima autorevolezza, New York Times e Washington Post.
Il Digital News Report 2016 del Reuters Institute sottolinea che il 90% del fatturato Online raccolto dal Nyt proviene dal 12% dei suoi lettori: l’apparizione della Legge di Pareto nella distribuzione dei ricavi prova che i lettori non sono tutti uguali. Lippmann aveva ragione, e ora la crisi economica impone all’editoria dei quotidiani di fare i conti con l’asimmetria che incrina il fondamento della democrazia liberale: la differenza di valore nei membri dell’opinione pubblica. All’inizio del 2016 il Wsj ha lanciato il “Ceo Council”, un’iniziativa riservata ad amministratori delegati e direttori marketing di imprese internazionali, accessibile solo su invito. A questo segmento ristretto di lettori si rivolge anche il programma di associazione di Business Insider, con una quota base di partecipazione di 4.000 dollari all’anno; se si aggiungono altri 2.495 dollari, il lettore può accedere anche ai dati raccolti dalle divisioni di research e intelligence del Gruppo Axel Springer. L’offerta ha riscosso l’adesione di settemila nuovi soci solo tra aprile e maggio 2017.
Politico Pro Money, dedicato ai provvedimenti di Congresso e Casa Bianca rilevanti per i decisori finanziari e imprenditoriali, prevede un contributo da 5 a 10 mila dollari all’anno. Il prezzo base per l’abbonamento a Businessweek è di 40 dollari per dodici mesi; ma l’accesso ai dati e alle informazioni finanziarie di BloombergLP richiede un’integrazione di altri 22 mila dollari, che permettono all’editore di alimentare la sua diffidenza nei confronti di Apple e di Facebook.
• A cosa servono i giornali
Possiamo quindi ora rispondere al quesito di Lippmann. Chi sono i lettori a cui si rivolgono i giornali? Le poche migliaia di decisori economici e politici del pianeta. A cosa servono i giornali? A fornire i dati per motivare le scelte di questi personaggi, e a prescrivere le loro stime e i loro comportamenti. La descrizione dei fatti non ha valore, se non contribuisce allo scopo. Chi non può consigliare risoluzioni – garantendone il successo con l’imposizione delle stesse scelte anche a tutti gli altri decisori – è gettato in balia ai programmi di informazione di Google&Co. «L’entità del reddito di un individuo ha notevoli conseguenze sulle sue possibilità di accesso al mondo che sta al di là del suo vicinato», diceva Lippmann. Ora l’avrà anche sul significato che dovremo assegnare alla nozione di democrazia.