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 2017  giugno 29 Giovedì calendario

La grande abbuffata delle eccellenze made in Italy

Irca è un nome che vi dirà poco o nulla. È un’azienda di Gallarate (Varese) che produce semilavorati per la pasticceria e la panificazione. La cosa interessante è che è stata appena ceduta al fondo Carlyle per un valore astronomico: 520 milioni di euro, due volte il fatturato e 13 volte l’ebitda (il margine operativo lordo). Valutazioni da maison del lusso. Così come la famiglia Caprotti non si aspettava certo di vedere piovere sul suo tavolo un’offerta da oltre 7 miliardi per i supermercati Esselunga. In questo caso si era fatto avanti il gruppo cinese Yida investment, una conglomerata con interessi nell’immobiliare, nell’energia alternativa, nella salute e nelle estrazioni minerarie. Una proposta molto allettante anche se un po’ sospetta per la tempistica: è arrivata proprio quando era in gestazione l’accordo tra gli eredi del fondatore Bernardo (consulenti Citigroup e Mediobanca) per condurre Esselunga in Borsa entro il 2020 (vedi box a pag. 61). Ad attirare i cinesi erano i conti estremamente buoni della catena di supermercati, tra (e poche rimaste a capitale nazionale. Ma anche la Possibilità di entrare nel mercato alimentare italiano, dove Esselunga è molto forte. Un po’ come ha fatto Amazon con i supermercati bio di Whole foods.
Del resto, il cibo made in Italy continua a crescere e solletica molti appetiti sia nei prodotti tradizionali sia nelle nicchie ad alto tasso di sviluppo: «Quasi tutte le settimane riceviamo manifestazioni d’interesse» conferma Massimo Monti, amministratore delegato di Alce nero, specializzata in alimenti bio, che con 74 milioni di fatturato è presente in 30 mercati esteri e ai primi di luglio annuncerà l’ingresso nel fresco.
«In tutto il mondo avanzato il food è in grande espansione», spiega Luigi Consiglio, presidente della società di consulenza strategica Gea e uno dei maggiori esperti d’alimentare in Italia. «1 carburanti di questa crescita sono soprattutto due: da una parte I consumatori vogliono imparare a cucinare a casa, come dimostra il boom di programmi tv come MasterChef, e allo stesso tempo chiedono i piatti pronti. Sono due fenomeni poderosi. Pensi che l’azienda che è cresciuta di più in Europa lo scorso anno è la tedesca HelloFresh, che ti porta a casa tutti gli ingredienti di cui hai bisogno per la ricetta che vuoi realizzare». 1 ricavi di HelloFresh sono passati da 2,3 a 304 milioni in quattro anni.
In questo scenario globale l’agroalimentare italiano non poteva che esplodere: in un Paese come l’Australia, all’altro capo del mondo con 23 milioni di abitanti, ogni mese su Google vengono effettuate 6 milioni di richieste di ricette italiane. «Abbiamo il cibo più desiderato del mondo» sottolinea Oscar Farinetti, fondatore della catena Eataly, che nel giro di pochi anni è diventata un marchio globale. «Non solo abbiamo il maggior numero di specialità concentrate in un singolo Paese, ma la nostra è una cucina facile, leggera, nata in casa e quindi semplice, accessibile a tutti. Il futuro deU’agroalimentare italiano è meraviglioso.
E siamo solo all’inizio». Anche Farinetti continua a ricevere offerte da parte di potenziali acquirenti: e lui non solo resiste alle tentazioni, ma rilancia con il progetto di collocare in Borsa il 30 per cento di Eataly il prossimo anno. «Non ne abbiamo bisogno, ma mi piacerebbe che le famiglie italiane partecipassero alla nostra avventura come piccoli azionisti».
I dati macro confermano il quadro positivo tratteggiato da Consiglio e Farinetti: nel primo trimestre di quest’anno l’export alimentare italiano è cresciuto dell’8 per cento ed è arrivato a quota 7,7 miliardi. Un dato «oltre qualsiasi previsione» ha commentato Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare. «È un nuovo record per il settore che rappresentiamo e che si conferma trainante per tutto l’export italiano. Un risultato eccezionale frutto di un sistema Paese che finalmente funziona in maniera efficiente e coordinata».
Purtroppo l’Italia è ancora al quinto posto nel ranking dei Paesi europei per esportazioni agroalimentari, benché sia prima per valore aggiunto agricolo. «C’è un grande tema che riguarda oggi le nostre imprese: quello della competitività» ricorda Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, «da un lato basata sul “saper fare” che ci contraddistingue ma soprattutto, dall’altro, sulle condizioni di contesto in cui si fa impresa oggi. 1 miglioramenti auspicati vanno dalla rete alle infrastrutture e saranno anch’essi determinanti per trasformare il valore unitario prodotto nei campi in valore esportato: la nostra eccellenza merita di viaggiare su binari sempre più veloci».
Però anche nella ostica Cina il cibo italiano va bene: come rivela un’analisi della Coldiretti su dati Istat, nel primo bimestre 2017 le esportazioni agroalimentari nazionali hanno messo a segno un balzo del 17 per cento a valore. E nei prossimi tre-cinque anni l’agroalimentare tricolore potrà doppiare la boa dei 50 miliardi di export (oggi è a 30 miliardi) se, sostiene il Boston Consulting group, continuerà a puntare sulla qualità, sfruttare i trend salutisti nei Paesi avanzati e servirsi delle piattaforme di e-commerce.
«Il settore alimentare italiano ha potenzialità infinite» insiste Consiglio di Gea, «le nostre imprese hanno un know-how che nessun altro ha. Però, per avere successo a livello globale bisogna essere riconoscibili. Oggi le imprese sono schiacciate tra una grande distribuzione dominata dai discount, e dall’e-commerce. In questa grande marmellata emergi solo se hai un marchio forte».
L’industria alimentare italiana realizza un giro d’affari di 132 miliardi, genera un export da 30 miliardi e dà lavoro a 385 mila persone. Complessivamente è formata da 6.850 imprese al cui vertice c’è una squadra di multinazionali ultra consolidate con una lunga storia alle spalle: come Ferrerò (10,3 miliardi di fatturato, più 8,2 per cento sul 2015). Barilla (3,4 miliardi), Perfetti (il terzo gruppo mondiale delle caramelle con 2,7 miliardi di ricavi). Grandi aziende, ben radicate nei loro settori che però non smettono d’investire e fare acquisti. Ferrerò di recente ha aperto a Singapore il primo centro di innovazione asiatico del gruppo: «11 nuovo centro» spiega in una nota il re della Nutella, presente in Asia con due stabilimenti in Cina e India, «è stato progettato per rafforzare la posizione globale di Ferrerò come leader nell’innovazione e ospiterà diverse funzioni strategiche nei settori della salute e della nutrizione, delle nuove materie prime, della ricerca e sviluppo prodotto, dei bisogni del consumatore e delle attività di ricerca di lungo periodo».
Barilla sta aprendo in tutto il mondo una serie di ristoranti (l’ultimo a Los Angeles) e nel frattempo investe nella sostenibilità: nel 2016 il leader mondiale della pasta ha riformulato 150 ricette, togliendo l’olio di palma da tutti i prodotti da forno. Dal 2010 ha ridotto le quantità di sale per 740 mila tonnellate, di grassi per 360 mila tonnellate e di grassi saturi per altre 20 mila tonnellate complessive.
Dietro alle corazzate del cibo made in Italy sta emergendo una flotta di aziende agguerrite sui mercati internazionali. Alcune sono molto note, come Lavazza: sesto produttore mondiale di caffè, 1,9 miliardi di fatturato di cui il 60 per cento realizzato all’estero, la società torinese, reduce dall’acquisizione in Francia di Carte noire, ha appena comprato l’azienda canadese Kicking horse coffee, leader nel segmento del caffè bio ed equo solidale. «Non volevamo rimanere a metà del guado» ha detto Antonio Baravalle, amministratore delegato di Lavazza. «Dobbiamo arrivare a 2,2 miliardi di fatturato in tre anni, di cui il 70 per cento all’estero, per avere una dimensione adeguata». Un obiettivo che può essere raggiunto non solo con la crescita organica, ma comprando imprese in giro per il mondo. Anche Granarolo (1,2 miliardi di giro d’affari nel lattiero-caseario) si sta dando da fare: negli ultimi anni ha ampliato la gamma dei prodotti e ha puntato sull’estero. Così al latte e ai formaggi si sono affiancati gli yogurt, i prodotti bio, gli snack, la pasta all’uovo e senza glutine, i piatti pronti vegetali, il prosciutto. Una raffica di novità alimentata dalle acquisizioni: «In quattro anni abbiamo comprato 30 aziende» ricorda Gianpiero Calzolari, presidente di Granarolo. «Del resto, per andare a conquistare i mercati internazionali ti devi presentare con il meglio del made in Italy, dai formaggi all’aceto balsamico fino alla pasta».
Altro esempio di impresa di successo sulle tavole globali è quello di Rana (600 milioni di ricavi), «costretta» a raddoppiare lo stabilimento americano perché non riesce a stare dietro alla domanda di ravioli e tortellini. E poi ci sono i casi della passata di pomodoro Mutti, che esporta in 82 Paesi, del formaggio Auricchio, dei salumi Citterio, di Valsoia, giusto per citare alcuni marchi di aziende italiane in deciso sviluppo all’estero. E naturalmente Eataly (400 milioni di fatturato), fondata 13 anni fa e già considerata un brand globale. La rivista americana Forbes ha stilato la classifica delle 25 imprese più innovative e «disruptive» (dirompenti) del mondo. L’unico marchio italiano presente nella graduatoria, guidata da Uber, è appunto Eataly che a fine settembre aprirà a Los Angeles il suo 40° negozio.
Eataly non è estranea a un altro fenomeno importante: il boom del biologico. «La catena di Farinetti è un ottimo partner» racconta Monti di Alce nero, «che contribuisce allo sviluppo di un settore in grandissima espansione. Il bio da anni avanza con aumenti delle vendite a due cifre e con punte del 20 per cento all’anno». Gli spazi sono enormi: oggi il bio rappresenta solo il 3 per cento del food e per le 60 mila aziende italiane si apre una prateria sconfinata. Soprattutto se la moda del cibo continuerà a tenere banco, sfidando in termini di attrattività finanziaria l’industria del lusso. «Sono convinto che questa tendenza durerà per anni» dice Farinetti. «Anche perché il cibo è un prodotto speciale: è l’unico che mettiamo dentro il nostro corpo».