il venerdì, 30 giugno 2017
Voltairine de Cleyre che doveva essere anarchica
Su ogni cosa vivente è tracciata la linea d’ombra di un’idea» e, a volte, e spesso, le idee morte, il conformismo, l’arrendevolezza al senso comune, l’ipocrisia, queste ombre ineluttabili e stremate, sono più forti dei lampi della passione, o della ragione, e uno si ritrova schiavo delle norme sociali, e non se ne accorge, e vivere, invece, vorrebbe dire lottare e ribellarsi. Voltairine de Cleyre (1866-1912) di saltar fuori da questa palude di stasi, e dal cinismo, ne aveva fatto un principio, o una vocazione. La linea d’ombra – scriveva – la valichi con un atto di fede, e di volontà. Alexander Berkman, un anarchico che la conosceva bene, e l’ammirava, la descrisse così: «Tutta la sua vita è stata una protesta contro le finzioni, una sfida lanciata a tutte le ipocrisie e una forza che incita alla rivolta sociale». Ineccepibile. Gli scritti di quest’anarchica e femminista americana mezza francese, in Italia li scopriamo soltanto adesso e sono splendidi. A partire da Nascita di un’anarchica (il saggio-confessione che apre il volume Voltairine de Cleyre, un ’anarchica americana, Eleuthera, a cura di Lorenzo Molfese), Voltairine parla molto tranquillamente di sé, in prima persona,e intreccia storia e biografia, privato e pubblico: il suo lascito nel pensiero femminista può essere ritrovato proprio qui, in questo connubio. In origine, racconta, sei quello che gli altri vogliono da te, o che pensano sia giusto, raccomandabile. Bella trappola. «Basandomi sulle mie prime influenze e sulla mia educazione, sarei dovuta diventare una suora, passando il resto della mia vita a celebrare l’Autorità nella sua forma più manifesta». Lottava contro i suoi demoni, o contro le idee ricevute, e col destino.
La vita, evidentemente, le aveva giocato uno scherzo beffardo. Nel nome Voltairinesi portava dietro un bagaglio impegnativo ma inaffidabile. Suo padre, un esule francese, l’aveva chiamata così in omaggio al santo patrono dei Lumi, però a conti fatti non ce la faceva a sostenere la parte, aveva le sue resistenze e i suoi dubbi, era incoerente. Da Leslie, nell’entroterra del Michigan, i De Cleyre si erano trasferiti a Pori.Huron, sui Grandi Laghi, e Hector, che pure era comunista (o lo era stato) aveva iscritto la figlia in una scuola di suore a Sarnia, sulla sponda canadese. Per la ragazza era una sorta di condanna alla morte mentale, e una via crucis, ma – tipico suo – aveva trasformato anche questo incidente in un’occasione: «L’antico e ancestrale spirito di ribellione si è risvegliato in me quando avevo quattoridici anni ed ero soltanto una scolaretta». Se più avanti scrive «provo pena per me stessa quando ripenso a quei giorni» non è del tutto sincera, non dice tutto. Aveva bisogno anche di quelle pastoie per crescere e diventare se stessa, per liberarsi: nel suo pensiero l’influenza del trascendentalismo di Emerson e del suo «Diventa chi sei» è trasparente. A lei, per diventare chi era, potevano servire persino quelle suore nere e bigotte, la superstizione. Intanto apprendeva un mestiere, studiava. Francese, matematica, musica e pianoforte: in tutta la sua (breve) carriera di agitatrice anarchica e oratrice femminista, Voltairine camperà dando lezioni di piano e francese o insegnando inglese agli immigrati, arrabattandosi (da anarchica, era molto lontana dall’idea del “rivoluzionario di professione“o del funzionario di partito, del burocrate).
Se non erano giorni felici, importava poco. La scuola, le suore, le gabbie della religione, del maschilismo: Voltairine quando ricorda quei lunghi momenti di stasi diventa lirica: «Fu come attraversare la biblica valle dell’ombra e della morte, e ancora oggi porto le bianche cicatrici sulla mia anima». Il fatto è che la figlia del sarto itinerante (il padre cuciva vestiti, di casa in casa) trasforma la litania delle messe cantate in ribellione e dal convento delle tristi sorelle invece che monachella esce da libera pensatrice, donna ribelle: «Paragonate alle lotte di quando ero ragazzina, tutte le future battaglie che ho affrontato mi sono sembrate semplici, giacché indipendentemente dalle circostanze esterne, imparai a seguire sempre la mia Volontà e la mia Volontà non ha mai giurato fedeltà a nessuno e mai lo farà».
La parola Volontà, Voltairine la scrive con la maiuscola (lo faceva anche Errico Malatesta, e forse i due si incontrarono ai tempi del breve passaggio a New York e Philadephia dell’italiano), ma a quei tempi ancora non era anarchica, si stava cercando. Sulla sua personalissima via di Damasco, inciampa nei fatti di Haymarket, a Chicago ( 1886): l’infame condanna a morte di cinque disgraziati per un attentato che non avevano commesso le apre gli occhi. «Fino a quel momento credevo ancora nell’assoluta giustizia della legge americana. Ma dopo quegli eventi non ci credetetti mai più». Disillusa e arrabbiata, questa suora mancata casualmente incontra prima il socialismo, poi l’anarchia. È l’inizio di un’avventura, e di una battaglia. Contro una «società con gli occhi chiusi e le orecchie tappate decisa a non vedere nulla se non la pura rabbia e la vendetta», Voltairine capisce che è il momento di agire, e si dà da fare. I suoi legami col movimento anarchico americano iniziano in quei giorni tremendi e non si interromperanno mai, sino alla morte. Voltairine sarà amica-riva – le di Emma Goldman, di Alexander Berkman e di Benjamin Tucker, incontrerà Kropotkin e Sébastien Faure, sarà compagna e amante diT. Hamilton Garside, di James B. Elliot (il padre di suo figlio), di Dyer D. Lum (l’uomo che aveva procurato a uno dei condannati di Chicago il sigaro-bomba con cui questi si sarebbe suicidato per sfuggire all’impiccaggione).
Oratrice straordinaria, inizia a girare l’America e l’Europa. I temi della sua (laica) predicazione saranno la lotta contro ogni tipo di Potere e di oppressione, l’importanza della «libera sperimentazione» sociale, e la condizione delle donne, da ribaltare. In modo molto più radicale della Goldman, l’anarco-femminismo di Voltairine De Cleyre va alla radice del male, e parla esplicitamente di «schiavitù sessuale», «la più vile delle tirannie». Era un tema scabroso (del resto lo è ancora). Anche tra compagni, anche tra anarchici: «Una parte degli anarchici nega che ci sia una questione femminile ma questa affermazione è principalmente fatta da uomini e, si sa, gli uomini non sono certo le persone più adatte a comprendere la schiavitù della donna». L’ultimo saggio del libro (Il caso delle donne contro l’ortodossia) è un omaggio commosso e ribelle a tutte quelle donne come Mary Wollestonecraft, Harriet Martineau o Lucy N. Coleman «che con le loro vite hanno trasmesso all’intero genere femminile ciò che le loro parole andavano esprimendo». E chiudeva così, arrabbiata, solenne: «E noi oggi vogliamo proclamare con loro la nostra Resurrezione».