il venerdì, 30 giugno 2017
La morale? Al mercato conviene far del bene. Comune. Intervista a Jean Tirole
TRENTO. Per decenni gli economisti si sono chiusi nella torre d’avorio dei modelli matematici e si sono dimenticati di avere a che fare con l’irregolarità umana. Inebriati dal sogno dell’homo oeconomicus – un idiota, come aveva già capito Amartya Sen – si sono ripiegati nelle loro gabbie di numeri e hanno smesso di chiedersi come ottenere una società migliore. Jean Tirole, ingegnere, matematico ed economista francese, ha cominciato a smontare le certezze dominanti rivoluzionando il pensiero sugli oligopoli. Attraverso la teoria dei giochi ha messo in evidenza la fallacia del «mercato che si autoregolamenta» e ha costretto la scienza economica a ripensarsi. Oggi i regolatori come l’Antitrust non possono fare a meno delle teorie di questo signore francese dall’aria timida e dalla voce profonda che nel 2014 ha vinto il Nobel.
Al Festival dell’Economia di Trento ha presentato Economia del bene comune (Mondadori). Un libro straordinario, che mette in evidenza una dote di Tirole: è enciclopedico, nella migliore tradizione del suo Paese d’origine. Il libro è un’opera omnia che parla di industria, finanza o teoria dei giochi e può essere letta, come suggerisce lui stesso, saltando da un capitolo all’altro, senza un ordine preciso.
Tirole, cos’è l’economia del bene comune?
«Molti pensano che sia un ossimoro, che ci sia un conflitto tra l’economia e il bene comune. Il mio libro cerca di sfatare questo mito: l’economia può essere al servizio del bene comune. L’interesse individuale non garantisce sempre il buon funzionamento delle società. Dobbiamo disegnare istituzioni che facciano in modo che gli individui facciano del bene alla società. I fallimenti del mercato, come ad esempio le diseguaglianze o la mancanza di solidarietà, si possono, anzi, si devono correggere».
Lei si occupa anche di problemi morali, affrontandoli dal punto di vista economico. Nel libro parla del trapianto di reni. Notoriamente è vietato comprarli: il Nobel Alvin Roth ha ideato una camera di compensazione per lo scambio incrociato fra donatori, mentre un grande economista della scuola di Chicago come Gary Becker pensava che dovrebbe essere consentito acquistarli. E lei?
«Io no. Dobbiamo pensare a chi venderebbe gli organi, se ci fosse un mercato. Presumibilmente i poveri – ed è qualcosa che farebbe somigliare questo mercato a quello della prostituzione. Se qualcuno vende un rene per duecento euro, è un simbolo molto negativo delle diseguaglianze. Alvin Roth ha risolto brillantemente il problema. Però citare Gary Becker sembra ormai un’eresia, anche se ha puntato il dito su un problema: la scarsità di organi. Bisogna sempre pensare il maniera scientifica. Cerco di non lasciarmi andare ai preconcetti».
Sul clima, lei critica gli accordi di Parigi, che gli Stati Uniti non hanno sottoscritto, ma che sono comunque troppo deboli perché non prevedono sanzioni.
«Bisogna trovare il modo di far firmare tutti. Altrimenti, per dime una, quelli che sono fuori approfittano del prezzo dell’energia fossile che si abbassa grazie all’accordo sottoscritto da chi non la usa più. Anche prima che Trump fosse eletto, la mia idea è sempre stata quella di dire: prendiamo i Paesi più inquinanti e facciamo in modo che il Wto consideri dumping sul carbone, cioè concorrenza sleale sui prezzi, chi non aderisce all’intesa sul clima. Così, chi è fuori viene sanzionato. È l’unico modo per rendere un accordo sul clima credibile».
Lei ha provato che l’altruismo esiste e spesso prevale sull’interesse individuale. E ha anche dimostrato, dopo anni di demonizzazione, che lo Stato non necessariamente confligge col mercato.
«È vero, correggere i fallimenti di mercato è qualcosa che spetterebbe ad esempio al governo. Ma il governo stesso è spesso catturato dalle lobby oppure agisce nell’interesse di breve termine dei singoli a essere rieletti. Sono problemi di cui va tenuto conto, nella definizione del bene comune».
Che cos’è la moralità?
«Lo stiamo studiando molto, è un concetto fragile. Facciamo un esempio: le elezioni francesi. Il “patto repubblicano“non esiste più: non è vero che la gente vota comunque contro Le Pen come nel 2002. Stavolta alcuni capi di partito hanno detto che non avrebbero votato Macron. Sono partiti che mai voterebbero Le Pen ma che cosi, di fatto, l’hanno sostenuta. Questa è la tipica narrazione che ci esonera da comportamenti virtuosi».
Lei cita il filosofo di Harvard Michael Sandel, che ha dimostrato la fallacia degli incentivi, chea volte funzionano al contrario di come vorrebbero gli economisti. Ad esempio la multa per i genitori che arrivano in ritardo a prendere i figli a scuola: fa aumentare i ritardi perché molti la interpretano come una tassa e non come una sanzione.
«Ci sono molti esperimenti che dimostrano quanto conti la dimensione sociale. In Svizzera ne hanno fatto uno interessante sull’introduzione del voto per posta: in teoria avrebbe dovuto incoraggiare una maggiore partecipazione nei piccoli villaggi, dove la gente era costretta ad andare a votare in città. Invece la propensione al voto è calata. La gente non si sentiva più obbligata a farsi vedere dal vicino mentre andava a votare...».
Ricorda un altro esperimento famoso, sempre in Svizzera: chiesero agli abitanti di un paesino di ospitare lo stoccaggio di scorie nucleari, prima gratis, poi a pagamento. L’incentivo monetario fece crollare i “sì”.
«La moralità è spesso guidata dal bisogno di sentirsi persone decenti. Se siamo pagati non è più chiaro se lo facciamo per avidità o generosità. Bisogna imparare come costruire la moralità. È fondamentale per decidere le politiche da adottare per il bene comune e la responsabilità sociale».
Nel libro lei si occupa anche di Europa. Il motore franco-tedesco può ripartire? L’Italia spinge molto per un assegno di disoccupazione comune.
«È positivo rivitalizzare lo spirito europeo che si è infiacchito ovunque. Ma io non penso, purtroppo, che avremo una disoccupazione comune europea. Le politiche del lavoro sono troppo diverse. E i Paesi nordici temono che quelli del Sud si facciano pagare il loro 25 per cento di disoccupazione senza cambiare le regole del lavoro. Sono pessimista».