La Gazzetta dello Sport, 30 giugno 2017
Trent’anni fa Arrigo Sacchi urlò: «Siate corti!». E il suo Milan aprì il futuro. 1987, l’anno che cambiò il calcio
L’Italia è paralizzata dallo sciopero selvaggio dei ferrovieri e boccheggia per l’afa: a Catania e a Lecce si sono toccati i 43 gradi. Una ricerca dell’Istat rivela che l’evasione fiscale, negli ultimi dodici mesi, è salita a 240 miliardi di lire e il presidente del Consiglio in pectore Giovanni Goria non riesce a mettere d’accordo i partiti di maggioranza, soprattutto i socialdemocratici scalpitano. Gli italiani in ferie, spalmati sulle spiagge o in cerca di fresco tra le montagne, leggono sui quotidiani la solita storia di un Paese di furbacchioni che non cambierà mai, al di là dei proclami, dei discorsi e delle speranze. A Milano, però, in quegli stessi giorni del luglio 1987 qualcosa di nuovo sta accadendo: al Palatrussardi viene presentato il Milan del presidente Silvio Berlusconi che ha chiamato in panchina un certo Arrigo Sacchi, benevolmente accolto come il Signor Nessuno. Lo ha prelevato dal Parma perché, nella stagione precedente, è rimasto incantato dal modo in cui la squadra emiliana ha eliminato il suo Milan dalla Coppa Italia: gioco veloce, brillante, tanti giovani, al Cavaliere sembra l’idea giusta. Molti bollano l’iniziativa come un salto nel buio, un azzardo. Chi è questo Sacchi?, si chiedono tutti. «Sono un’incognita» ammette lui stesso il giorno della presentazione, non nascondendo che sa di dover affrontare un muro di diffidenza, quando non un evidente ostracismo. La missione che Berlusconi consegna all’allenatore non è proprio una passeggiata: vincere in Italia, in Europa e nel mondo. Cioè: prima lo scudetto, poi la Coppa dei Campioni, quindi l’Intercontinentale. Semplice, no? «Al Dottore, Berlusconi lo chiamavo così, dissi subito che io e lui eravamo d’accordo sul progetto, ma perché si potesse realizzare dovevano essere d’accordo anche loro, e indicai i venti giocatori che avevo convocato per il ritiro. Speriamo bene».
ARIA NUOVA
Per agevolare il lavoro del nuovo allenatore Berlusconi non aveva badato a spese. L’organico a disposizione di Sacchi valeva 65 miliardi di lire. Inoltre, siccome nulla doveva essere lasciato al caso e ogni dettaglio andava curato, aveva ordinato che a Milanello, sede del ritiro, fossero installate l’aria condizionata e la filodiffusione, in più fece mettere televisioni a colori in tutte le camere e chiese che le palestre fossero attrezzate con i più moderni strumenti tecnologici. Milanello divenne una specie di hotel a cinque stelle: quando vi sbarcò, Ancelotti ammise che gli sembrava di essere arrivato su Marte. «Ma la cosa più rivoluzionaria era l’uomo, cioè l’allenatore con il quale io avevo a che fare per la prima volta – dice oggi Carletto -. Un martello. Sacchi pretendeva tantissimo, non staccava mai. Ma devo ammettere che era un genio, un innovatore. Io non mi ero mai allenato tanto in carriera. Due sedute al giorno: la mattina si correva nei boschi, 45 minuti dietro quel matto di Pincolini (il preparatore atletico, ndr), su e giù, cambi di ritmo, cambi di direzione. Arrivavo all’ora di pranzo che vedevo la Madonna... Al pomeriggio, seduta tattica. Zona, pressing, fuorigioco, squadra corta... Mamma mia! In Italia non c’era nessuno che applicava quei metodi».
Pincolini, di Sacchi, era una specie di braccio armato. Il gioco che aveva pensato, e fatto applicare al Parma, prevedeva una perfetta preparazione fisica poiché c’era un grande dispendio di energie. «Caricammo moltissimo nel primo periodo – racconta Pincolini -. Molti ragazzi non erano abituati ad allenarsi con tanta intensità e difatti ci furono parecchi infortuni. Con Arrigo ci preoccupammo: forse dobbiamo rallentare un po’, gli dissi. Avevamo qualche dubbio, insomma. Ma ci venne in aiuto Berlusconi che, nonostante i tanti giocatori fermi per indolenzimenti, stiramenti, contratture e cosette varie, dettò la linea: “Avanti così, aria nuova in cucina!”. Era lui il primo a volere il cambiamento».
PROTEZIONE
Paura Sacchi non ne ebbe mai. Né quando entrò per la prima volta a Milanello, lui che una squadra di Serie A non l’aveva mai allenata, né quando si accorse che il progetto non decollava e la gente cominciava a mugugnare. «Sapevo che dovevo convincere i giocatori a seguirmi. A loro chiedevo di pensare in modo collettivo, e di giocare di conseguenza. Erano tutti professionisti molto seri e disponibili al lavoro. All’inizio avevo qualche timore per Gullit, me l’avevano descritto come una testa calda. Invece si rivelò un grande trascinatore. E un uomo intelligente. Se sbagliava, capiva l’errore, lo ammetteva e si scusava. Una volta, eravamo a Roma mi pare, beccai lui e Van Basten che, dopo una partita, uscirono di nascosto dall’albergo per andare a fare un giro. Li feci riportare indietro e chiesi il perché di quella loro iniziativa: “In Olanda facciamo sempre così...”. Sì, ma qui siamo in Italia: su in camera e a letto. Non successe mai più. O perlomeno io non l’ho mai saputo...». Con i due, lo ricorda ancora oggi Ancelotti, Sacchi si esprimeva in un inglese-romagnolo che capiva soltanto lui. «Per spiegare la tattica – fa Carletto – ripeteva: it is nesessari det de tim is sciort. Squadra corta, insomma. E poi lo schema: uen uan cams, uan go. Che era: uno incontro e l’altro nello spazio. Però Gullit e Van Basten capivano, eccome se capivano...». Sacchi curava ogni particolare e preparava gli allenamenti con meticolosità e pazienza certosina. «Per insegnare il pressing, che allora in Italia non si faceva come movimento di squadra e purtroppo si fa poco anche oggi, utilizzavo un esercizio che avevo inventato e non era mica semplice. Ma i ragazzi non ebbero difficoltà ad apprenderlo e lì capii che avevo a che fare con persone intelligenti, prima ancora che con dei calciatori. E poi un’altra spia che mi si accese, e mi tranquillizzò, fu quando vidi che tutta la squadra era già in campo e io dovevo ancora finire di prepararmi. Avevano voglia di giocare, di allenarsi, di divertirsi. Con quello spirito e con quella mentalità i risultati sarebbero arrivati». Alle prime critiche, che non furono poche, per proteggere l’allenatore scese in campo il presidente. Berlusconi radunò la squadra e disse chiaro e tondo, indicando Sacchi: «Lui resta, voi non lo so». Chi doveva capire aveva capito. E chi non voleva capire sapeva di avere vita breve.
PSICOLOGIA
Ci fu un momento che tutti i giocatori di quel periodo ricordano ancora adesso. È un giorno preciso: il 27 dicembre 1987. Racconta Ancelotti: «Arrigo ci martellava dicendo che il Bologna di Maifredi era la squadra che giocava il calcio più bello, ce lo ripeteva in continuazione, durante gli allenamenti, negli spogliatoi... Un’ossessione! Il Bologna era in Serie B, noi in Serie A. Ci guardavamo, io, Van Basten, Gullit, Baresi, Maldini, e non riuscivamo a capire il perché di quell’insistenza. Ricordo che Van Basten mi chiedeva: “E chi è Manfredo?”. Poi, poco prima di Natale, Sacchi ci comunica che il 27 dicembre avremmo disputato un’amichevole proprio contro il Bologna. Ma come, neanche qualche giorno di riposo per Natale? Eravamo arrabbiati neri. Andammo in campo e non ci fu bisogno di raccomandazioni tattiche o cose del genere: vincemmo 5-0 e così sistemammo il Bologna di “Manfredo”. Almeno per un po’ non lo avremmo più sentito nominare... Ma Arrigo, finissimo stratega e psicologo, aveva ottenuto ciò che voleva: la nostra reazione. Ci aveva stimolato, aveva toccato le corde giuste». A quel tempo, a Milanello, oltre ad allenare i muscoli si lavorava pure sui cervelli. Berlusconi aveva voluto che la squadra fosse regolarmente sottoposta a lezioni e sedute di psicologia, e anche a Sacchi, prima di entrare a far parte del mondo del Cavaliere, vennero fatti test di idoneità. «La sera, durante il ritiro – spiega Pincolini – ci si sistemava nella sala del camino e si parlava con i dottori. I giocatori erano stanchi, dopo ore di lavoro sul campo, ma affascinati da questi nuovi metodi». E, prima di andare a nanna, c’era l’ultima lezione: quella di Sacchi. Faceva il giro delle camere, salutava, augurava una buona notte e, se c’era bisogno (e c’era sempre bisogno...), si fermava a parlare con qualcuno, a spiegargli schemi, movimenti, raddoppi e sovrapposizioni, una va e l’altro viene, corti, sempre corti, mi raccomando.... «Era faticoso – conclude Ancelotti – ma bellissimo».