la Repubblica, 30 giugno 2017
Una grande famiglia colpita dal «virus rosso», orgoglio e identità per sfidare i giapponesi
BOLOGNA Donato si è fatto tatuare sull’avambraccio destro un groviglio blu di ingranaggi con al centro lo stemma della Ducati, rosso vivo come il cuore: ha 28 anni, viene da Salerno, fa il tornitore al reparto lavorazioni meccaniche e racconta che sta «vivendo un sogno». Davide ne ha 38, è bolognese, coordina i meccanici della linea di produzione e di tatuaggi sulla pelle ne ha due: le sospensioni della Panigale, i pistoni e i cilindri della Superquadro. «Questo è l’anno buono», giura. Un altro sul petto ha la riproduzione in dettaglio del motore Desmodronico, ma non può mica togliersi la tuta per mostrarla. Cristian invece è uno dei tanti ingegneri che in ufficio indossa la maglietta commemorativa del Mugello. C’è su scritto: “Successo made in Italy”. L’avevano stampata per il primo successo di Dovizioso, neppure loro potevano immaginare che una settimana dopo avrebbe vinto anche a Barcellona. Ora che il Dovi è in testa al mondiale ci vorrebbe qualcosa di più, però per scaramanzia aspettano la gara di domenica in Germania. «Non succede. Ma se succede…». Gli uffici sono tappezzati di poster del pilota forlivese, come quello – gigantesco – che ti accoglie all’arrivo in fabbrica alle porte di Bologna, Borgo Panigale. Benvenuti in via Antonio Cavalieri Ducati 3: dove tutti, ma proprio tutti dall’amministratore delegato al custode: 1.200 dipendenti “malati” e felici – sono irrimediabilmente contagiati da quello che qui chiamano il “virus rosso”. La Ducati. Meccanici, operai, ingegneri: ultrà della Rossa. E dicono sia anche questo, il segreto di un’azienda che pare una formica contro Tyson (55.000 esemplari prodotti ogni anno, contro i 12 milioni di motori della Honda), eppure in pista sta vincendo la sfida.
Nello stesso stabilimento emiliano si producono e assemblano le Gp17 che stanno dominando con Dovizioso e Petrucci – in attesa che sbocci anche Lorenzo -, insieme a moto vendute in tutto il mondo, soprattutto negli Usa: sono 7 anni che Ducati registra un segno positivo, nel 2016 il fatturato è stato di 730 milioni di euro con un utile di oltre 50. Dicono sia merito di Audi e il gruppo Volkswagen, che l’hanno comprata giusto 5 anni fa. Ma quando il Ceo Ruper Stadler, era il 19 luglio del 2012, ha parlato a tutti i dipendenti di Borgo Panigale – non era mai successo, hanno dovuto allestire un palco e sgomberare le officine – le sue parole sono state: «Ducati bleibt Ducati». Ducati resta Ducati: italiana. «Ci hanno dato carta bianca: collaboriamo e scambiamo dati con Wolfsburg, però qui continuiamo a decidere noi. Si fidano, e fanno bene», spiega l’ad Claudio Domenicali. I tedeschi hanno pagato 840 milioni di euro. Ora dicono che l’azienda sia in vendita quasi al doppio, che tra i potenziali acquirenti ci siano Harley Davidson, il gruppo indiano Bajaj, alcuni fondi di private equity. Nel frattempo continuano a comandare loro, gli italiani, eredi di una società nata quasi un secolo fa in uno scantinato come Società Scientifica Radio Brevetti.
Una fabbrica, un laboratorio di idee, una famiglia. Donato D’Amato, quello del tatuaggio sull’avambraccio, la sognava da bambino. «Sono un figlio del Meridione, uno che smontava motorini e si immaginava di essere un pilota», dice. «Al paese lavoravo in una officina di stampi d’acciaio, un giorno ho mollato tutto e ho presentato un curriculum qui. Ci ho messo un po’, ma alla fine li ho convinti». Da 3 anni fora, tornisce, si occupa della dentatura degli alberi motore, delle bielle. «Per me è stato come entrare in una famiglia: la Ducati è speciale, metti le mani su pezzi che un giorno saranno decisivi nel campionato mondiale». Non sembra vero, invece. «Sono venuti i piloti, sembravano colleghi. Umili, disponibili: una squadra». Si è preso una Monster 821, ci gira quando ha un po’ di tempo libero. «Quel rumore… il bicilindrico lo senti arrivare da lontano, è una musica». Ha preso da parte Dovizioso, gli ha detto: «Quest’anno vinciamo: capito?». Sono 10 anni, dal capolavoro di Casey Stoner, che aspettano un titolo. «Ora arriva, e sarà nostro: di tutti».
La festa è stata a metà giugno: c’erano i piloti e gli ingegneri del Reparto Corse, e gli altri rimasti a Borgo Panigale coi bicchieri e il petto da riempire di gioia. Claudio Domenicali tarantolato dall’emozione ha innaffiato di spumante la “Gigia”: la Gp17, meravigliosa Creatura dell’ingegner Gigi dall’Igna. In prima fila c’era anche Davide Cattabriga di Crevalcore, che è pure il paese di Gigi Simoni, l’allenatore, «ma io del calcio so mica niente: solo motori». Lui è quello del doppio tatuaggio. Dicono che con un cacciavite in mano faccia miracoli. «Sono da vent’anni in azienda, questione di orgoglio e di passione: il reparto corse Yamaha è grande come tutta la Ducati, ma vuoi mettere il genio italiano? Quest’anno dovranno sudare, per portarci via il titolo». Nel garage di casa ha due Panigale. Lavora con due ragazzi di origine calabrese, Giuseppe Curia e Agostino Magliarella. Non lo sanno, ma nelle prossime settimane uno di loro tre sarà scelto per andare al box, in pista. «Dobbiamo lavorare duro, in questi giorni. Il salto di qualità in MotoGP dipende anche da noi, e dagli ingegneri al piano di sopra». Raccontano che hanno anche il telo da mare, della Rossa: «In spiaggia la gente si incuriosisce, ti chiede: sei tifoso? Quando rispondi che sei molto di più, che sei uno della Ducati, allora ti guardano con ammirazione. E non c’è bisogno di aggiungere altro».