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 2017  giugno 29 Giovedì calendario

Chi ha ancora paura di Curzio Malaparte?

La leggendaria villa caprese resta inavvicinabile. Superato il belvedere di Punta Tragara, sopra i Faraglioni, si percorre il sentiero di Pizzolungo fino al punto in cui pare quasi di poterla toccare – una scatola rosso pompeiano a strapiombo sul mare. Niente. Lui l’aveva destinata all’ospitalità di «artisti cinesi»; oggi è solo una fortezza inespugnabile in mano agli eredi. Ma l’isolamento di questa enorme casa-nave, incagliata su uno sperone di roccia – «Casa come me» la chiamava il progettista e proprietario -, è forse il riassunto più preciso dei sessant’anni trascorsi dalla morte di Curzio Malaparte. Nome su cui grava tuttora un’ombra, se non di freddezza, di pregiudizio. Possibile? Vale, naturalmente, soltanto in Italia: in Francia hanno appena tradotto “Battibecchi” (“Prises de bec”, Les Belles Lettres), testi spesso un po’ datati e soprattutto molto italiani; in Gran Bretagna la traduzione di Tecnica del colpo di Stato per Enigma Books è uscita con una sottolineatura della «lucida e realistica visione della storia e della politica moderne».
Crescono dunque le traduzioni e cresce l’interesse accademico: non è difficile incontrare studiosi stranieri stupiti di come Malaparte non sia ancora canonizzato in patria. «Ma è fastidioso anche lo spirito del risarcimento postumo» dice Maurizio Serra, autore della più documentata e obiettiva biografia ( Malaparte. Vita e leggende, Marsilio). È dell’idea che qualcosa, negli ultimi anni, si sia mossa anche da noi: «Nelle ultime riedizioni delle opere, pubblicate da Adelphi – fra cui Maledetti toscani, fuori catalogo da anni – si offrono corposi apparati.
La pelle e Kaputt sono meno egemonici di un tempo: si è allargato il campo d’indagine sullo scrittore e sul personaggio, a lungo demonizzato come l’incubatore di tutti i vizi nazionali. Uscire dalla pigrizia degli schemi e delle etichette, comunque, non è facile; all’opera di Malaparte occorre uno sguardo “sine ira et studio”, e qualche segnale positivo in questa direzione c’è».
Proprio in vista del sessantesimo anniversario della morte – 19 luglio 1957 – è stata lanciata una petizione per un Premio Strega alla memoria. Malaparte fu in concorso nel 1950; perse contro La bella estate di Pavese. Due romanzieri, Monaldi& Sorti, che hanno scelto Malaparte come protagonista del loro ultimo romanzo ( Morte come me, Baldini & Castoldi), hanno promosso la raccolta firme. Hanno aderito, fra gli altri, Walter Veltroni e Franco Cardini. La Fondazione Bellonci l’ha respinta. «Malaparte merita di più», dicono i due scrittori, al tavolo di un’enoteca romana. Hanno fatto preparare un cocktail a base di Strega e champagne, ispirato dalla frase con cui l’interessato liquidò la sconfitta: «Io non bevo Strega, bevo champagne». Non male. Aggiungere, per completare simbolicamente il drink, arancia amara e alloro. «Malaparte è il Novecento», continuano appassionati Monaldi&Sorti: «Cosmopolita, camaleontico, profetico, è insieme attore e scrittore della stagione più complessa e drammatica del Ventesimo secolo». In effetti, si potrebbe leggere la sua parabola biografica come un libro di storia impazzito: due guerre mondiali; perfetto ma inquieto fascista di provincia, arrestato nel ’33 su denuncia di Italo Balbo. Nato Kurt Suckert, era diventato Malaparte nel ’25, quando l’antifascista Gobetti gli pubblicò il libro Italia barbara, presentandolo senza imbarazzo come «la più forte penna del fascismo». Nell’estate del ’31 già è alle prese con un ritratto di Mussolini, acido come una ripicca: Muss. Ritratto di un dittatore. Lo rimanda in libreria Passigli, e Francesco Perfetti, nell’introduzione, mette subito in chiaro come, a quell’altezza, l’antifascismo di Malaparte si inserisca bene «nel quadro comportamentale di un uomo che amava ostentare – poco importa se per scelta estetizzante o per la sua natura narcisistica – un profondo anticonformismo di atteggiamenti e relazioni umane».
E in effetti, nel ritratto che Malaparte fa di Mussolini, c’è più fiele che miele: «Possiede sviluppate in sommo grado quella furberia e quella mancanza di scrupoli che reviennent così spesso nella storia delle servitù politiche d’Italia». Non sarebbe dispiaciuto a Gobetti. E nemmeno il dito puntato contro l’eterna dedizione degli italiani ai santi e agli eroi, che sono la stessa cosa; contro i cedimenti alla ciarlataneria, all’ottusa forma di idolatria indotta dal capo del fascismo: «Quando si tratta di se stesso, il Duce, che ha in generale, nei riguardi degli altri, un certo sense of humour, perde completamente la nozione del ridicolo». Così, lucidamente, scrive dell’egocentrico Benito l’egocentrico Curzio. Ma con Malaparte va sempre così: dove pensi di stanarlo, lui si sposta un passo di lato; si mette perfino contro sé stesso, pur di avere tutti contro.
Fuori dall’epica post-dannunziana, alimentata a dismisura (la cipria, il rimmel, l’abbigliamento scelto con cura; la mitografia fra titanismo e vittimismo), c’è da esplorare ancora a fondo il cantiere della scrittura. L’inusitata miscela elegiaco- grottesca, priva di modelli espliciti, è indagata da Giuseppe Panella in L’estetica dello choc, appena ristampato da Clinamen in una nuova edizione.
«Malaparte – spiega Panella – si misura con la grande ricerca letteraria europea degli anni Trenta, in particolare di marca surrealista, mentre i suoi bersagli sono i rondisti, li liquida come eunuchi. Non gli interessano nemmeno realismo e neorealismo: lui trasforma la realtà, la intensifica, per evitare che il lettore sia anestetizzato». Studiare l’opera non è agevole; per le carte – praticamente bloccate nella biblioteca milanese di Marcello Dell’Utri, ora in carcere – si è fatto avanti il comune di Prato, intenzionato a festeggiare il celebre e scomodo concittadino.
Gli eredi non aiutano più di tanto. Ma la forza angosciante e turbolenta della sua opera avanza comunque; e certe sue visioni fra disgusto e meraviglia – le orribili nane, la bambina bollita, i feti della Pelle, quasi le premesse di un Sorrentino “al nero” – scavalcano il postmoderno, e non temono il futuro.