Corriere della Sera, 29 giugno 2017
Anarchici, potenti e Padre Brown. Il ballo in maschera di Chesterton
Le avventure di un uomo vivo (1912) è il più bel libro di G. K. Chesterton: festoso, intelligente, divertentissimo, arioso. Il libro inizia mirabilmente. «Il vento si levò alto ad occidente come un’onda di irragionevole felicità, e si slanciò verso oriente sull’Inghilterra, portando con sé il nevoso aroma delle foreste e la gelida bianchezza del mare. In mille buche e cantucci ristorò la gente come un bicchiere di vino fresco e la sorprese come una percossa... Il vento giunse, spaccò il cielo, scaricò a destra e a sinistra la nuvolaglia, e spalancò la grande fornace radiosa dell’oro serotino...». La colossale apertura che il vento aveva fatto in quell’area annuvolata diventò sempre più luminosa; e pareva che una stanza dopo l’altra si spalancasse. Si sentiva che da ultimo sarebbe apparso qualcosa di più luminoso della luce.
«Qualcosa di più luminoso della luce»: questo qualcosa è Innocenzo Smith, che appare subito ai nostri occhi, portato dal vento, seduto su una carrozza, con la testa piccola e il corpo grossissimo, i capelli gialli ritti in tutte le direzioni, uno sgargiante abito verde, un massiccio ombrello verde, una grossa valigia di cuoio giallo, un cappello danzante, occhi sfavillanti come stelle, e un turbinoso rotare di gambe; estremamente pacifico come tutto ciò che è voluminoso. Arrivano altri personaggi, affollati in una stanza. Il vero personaggio è lui, Innocenzo Smith: salta i muri di cinta, si arrampica sugli alberi, disfa la valigia, sale sopra il tetto, si arrampica nel vuoto, fa merenda sul tetto, entra nelle case dagli abbaini; e porta con sé un grosso e lustro revolver americano, con il quale tira pistolettate agli amici.
Come un mimo o un prestigiatore, comincia subito a scatenare la propria vitalità traballante e vertiginosa. Sembra che viva in un perenne manicomio – il quale, capiamo subito, è il vero luogo della salvezza. Come dice il suo nome, è innocente : candidissimo, velocissimo, affascinantissimo; e si trasferisce negli oggetti inanimati, scoprendo, in sé e in loro, una specie di unità superiore. Sembra un gatto colossale, o un babbuino. Quando gli chiedono il nome, risponde: «Mi chiamo Smith. Quasi quasi»; e poi, la cosa capitale: «Uomo, uomo vivo. Ecco il mio vero nome»; e poi ancora: «Il mondo è qualcosa di bello, di meraviglioso».
Sapremo presto che Innocenzo Smith si era «sposato e felicissimamente sposato» con una donna dai capelli rosso scuro – e non gli importava nulla di nessuno eccetto di sua moglie, e di nessuna casa, tranne casa sua. Per lui la famiglia è un coloratissimo, sterminato romanzo: più romanzesco di qualsiasi romanzo di avventura; e l’Ordine è il più divertente dei disordini. Dice: «Io capovolgerò il mondo. E capovolgerò anche me stesso»: ma, capovolgendo tutte le cose, tornerà indietro, e indietro, fino all’Eden. Se dovessimo parlare con il linguaggio classico, dovremmo dire che egli è l’ultimo, grandioso discendente di Ermes: variopinto e molteplice come Ermes. Se parliamo con un linguaggio cristiano, dobbiamo sottolineare che il suo mondo è quello del miracolo: «La cosa più incredibile dei miracoli, dice Chesterton, è che accadono»; il miracolo è una figura che viene direttamente da Dio. Innocenzo si prende gioco dell’America: l’America – dice – è un Paese dove sono possibili cose che a un inglese fanno l’effetto di vere e proprie pazzie. Stati vastissimi eppure reconditi: estesi come una nazione, ma segreti come un villaggio, dove talvolta tutto è proibito, perfino fumare una sigaretta.
Le Storie di Padre Brown che Chesterton raccolse in parte nel 1929 sono il suo libro più famoso, sebbene meno bello delle Avventure. Egli conserva i suoi occhi velocissimi e telescopici: sempre divertenti e rapidi, essi producono continuamente piccoli capolavori – come una corsa di veloci passettini, che a un certo punto si frena in un’andatura lenta e cadenzata, che poi diventa di nuovo un fruscio di passi affrettati, e poi di nuovo si trasforma in passi pesanti. Nelle Avventure di un uomo vivo e nelle Storie di Padre Brown, Chesterton mira agli aforismi: aforismi che gli riescono insieme di una straordinaria velocità e di uno straordinario spessore.
Sebbene i libri della serie di Padre Brown siano molto noti, vorrei ricordarli ai lettori italiani di Chesterton, i quali sono spesso distratti. Padre Brown è un piccolo prete di campagna dagli occhi grigi: ha il viso freschissimo, come se lo avesse appena lavato: parla di sé come di un «pescatore di uomini»: un tempo aveva letto tutti i libri di san Tommaso d’Aquino: appartiene alla Chiesa di Francesco Saverio a Camberwell; ma, in realtà, la sua vera patria sono i bassifondi del mondo. Forse queste sono le sue frasi preferite: «Non le è mai venuto in mente che, quando un uomo [come appunto lui] non ha quasi fatto nient’altro che ascoltare i mille peccati degli uomini, non è facile che resti completamente all’oscuro del male del mondo?». E: «Sapete che l’uomo che dorme crede in Dio? È un sacramento e un nutrimento».
Più di ogni altro personaggio di Chesterton, Padre Brown sente l’odore del male, come un cane e un gatto sentono l’odore dei topi. Fa collezione di casi strani, stravaganti, forse con più passione e divertimento dello stesso Chesterton. Sa ascoltare: apre nella voce quell’oasi di silenzio amichevole che è così importante per le confidenze; e, senza quasi dire una parola, ottiene dalle sue molte conoscenze tutto quello che esse sono disposte a dire. Ama le buffonerie, le farse, le pagliacciate. Egli aggiunge: «Sono un uomo, e perciò ho tutti i demoni nel mio cuore».
I libri di Chesterton sono pieni di anarchici e di poliziotti: anarchici travestiti da poliziotti e poliziotti travestiti da anarchici: perché nei suoi romanzi ogni uomo, desidera in primo luogo travestirsi, magari da venditore di caldarroste; e appena si è travestito ambisce a un’altra maschera. I potenti si camuffano da umili: gli umili da potenti. C’è un odore di istrionismo e di palcoscenico. Ogni racconto è un ballo in maschera. Ogni cosa è una fantasmagoria di ombre e di luci. Diavoli ridono e starnutiscono e si soffiano il naso. Infine i personaggi muovono verso lo scintillio nebbioso, confuso e trasparente del Tamigi, il quale, a volte, appare desolato come l’Acheronte.
È uscito da Adelphi L’età vittoriana nella letteratura (con la traduzione di Paolo Dilonardo), che Chesterton compose nel 1913. Non dimentica la letteratura inglese medievale; e cita spesso i capolavori della letteratura francese. Il libro procede velocemente: per istanti, lampi, premonizioni, con brillii e insulti, fidando molto nella complicità dei lettori.
Chesterton parla della Austen, delle Brontë e di George Eliot: «Jane Austen era capace di descrivere un uomo con freddezza: cosa di cui né George Eliot né Charlotte Brontë furono capaci». Parla di Macaulay e di Newman: «Per Newman confessare i propri tremiti, le proprie esitazioni, le proprie resistenze incoerenti costituì una ragione di vita». Parla di Thomas Carlyle: «Aveva una facoltà della mente simile alla preveggenza». Parla a lungo di Charles Dickens: «La sua energia assomigliava all’insorgere di una immensa folla. Era una folla in rivolta; e aveva una sete di cose umili, umane e risibili come il pane di cui imploriamo Dio». Sentiva. Sapeva gustare. Fu spesso tremendo, ma mai crudele: attendeva i suoi personaggi, come invitati a pranzo. «Cime tempestose di Emily Brontë avrebbe potuto essere scritto da un’aquila». Infine Chesterton critica la fine dell’età vittoriana, quando iniziò a diffondersi la facile e automatica abitudine di considerare le cose come se fossero palesemente indiscutibili, «mentre, in realtà, esse sono palesemente discutibili».
La parte più bella del libro è quella dedicata a Stevenson: a ciò che egli scoprì dell’infanzia e della giovinezza e del male assoluto nel Master of Ballantrae e nello Strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde. «L’uomo – pensava Stevenson – non può scindersi; perché se il male non si interessa al bene, il bene deve interessarsi al male». Era la frase prediletta di Chesterton.