il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2017
Nel Paese di Masterchef non si trovano cuochi
Prendiamo un Paese con quasi 3 milioni di disoccupati. Aggiungiamo un settore, quello della ristorazione, pieno di ragazzi appassionati e disposti a frequentare scuole alberghiere e costosi corsi di formazione pur di entrarci. Condiamo il tutto con 11 mila posti disponibili che le aziende – secondo i radar della Federazione pubblici esercenti (Fipe) – non riescono a riempire. Ecco pronta la ricetta del grande paradosso del mercato del lavoro italiano.
Di camerieri e soprattutto cuochi, in Italia, ce ne sono tanti, ma mai abbastanza da soddisfare tutta la richiesta. Nonostante la moda di fenomeni televisivi come Masterchef, le imprese lamentano una difficoltà ormai viscerale nel trovare i profili giusti. I dati corredano quella che non è solo una sensazione: secondo l’Istat, i servizi di alloggio e ristorazione hanno uno dei più alti tassi di posti vacanti (1,2% a fronte di una media dello 0,8%). Ora che è arrivata la bella stagione, colmare questa carenza sarà una lotta. Parlando con gli esperti e con gli addetti ai lavori, si scopre che le ragioni di questo scollamento tra domanda e offerta sono diverse.
Enrico Camelio insegna in un istituto alberghiero ed è consulente dell’alta ristorazione internazionale. In primis, punta il dito contro il sistema formativo: “Le scuole – spiega – non fanno abbastanza pratica”. Mancano le materie prime e spesso bisogna andare di fantasia, fingendo per esempio che un cefalo sia in realtà una spigola. Ma secondo Camelio c’è pure un altro fattore che allontana i ragazzi, pure motivati, da questo mondo: “I pesanti turni di lavoro e le paghe basse”. Non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma testimonianze di casi ai limiti dello sfruttamento non mancano, neanche nelle strutture “stellate”. Il confronto con l’estero, pure restando nella fisiologia, è impietoso. Un esempio lo racconta Diego: “In un ristorante a Roma ho guadagnato 1.200 euro al mese per 15 ore al giorno, a Londra per 40 settimanali si prendono 1.900 sterline. E in Inghilterra sono precisi, è tutto scritto nel contratto”. Da noi, invece, è diffuso il malcostume del “fuori busta”, una fetta di stipendio pagata in nero. Un altro ragazzo, che preferisce restare anonimo, parla di un’esperienza a titolo gratuito presso uno chef di fama internazionale: “Ti danno solo l’alloggio – spiega – e giocano sul fatto che ti fa curriculum e dopo un po’ magari ti iniziano a pagare 500 euro al mese”. Risultato: anche lui ha scelto di andare all’estero perché “lavorerò di meno, guadagnerò di più, mi rimborseranno il primo volo e il corso di lingua”. Per dirla con Flavio Briatore, insomma, sono i migliori ad andare via. Tanti altri si fanno scoraggiare dall’idea di lavorare duro e con bassi stipendi mentre tutti sono in vacanza.
Guardando la questione con lo sguardo dei datori, si torna sul problema della mancanza di competenze. “Abbiamo volumi di richieste che arrivano a 110 mila posti – afferma Giancarlo Deidda, vicepresidente Fipe – ma il 10% resta inevaso. È un’impresa intercettare soprattutto i camerieri. Si pensa che sia una mansione servile, invece noi cerchiamo gente qualificata, in grado di accogliere il cliente, usare il palmare e rispondere alle domande. Sono quelli che possono fare la fortuna di un ristorante, ma la scuola non li forma a dovere”. L’inefficienza dei servizi di avviamento ci mette del suo: “Dai centri per l’impiego – denuncia Deidda – non riusciamo a ottenere nemmeno la lista dei disoccupati iscritti, cosa che ci aiuterebbe a fare i reclutamenti”.