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 2017  giugno 28 Mercoledì calendario

Dream Team, uno show da 25 anni. Il sogno che ha cambiato il basket

«La più grande concentrazione di talento in una squadra». Difficile trovare una definizione più azzeccata rispetto a quella che Peter Vecsey, celebre firma del New York Post, utilizzò per la Nazionale statunitense che 25 anni fa, il 28 giugno 1992, debuttò nel Preolimpico di Portland, antipasto dei Giochi di Barcellona 1992. Una squadra mai vista prima, e mai più rivista, che per il basket rappresentò un evento spartiacque, paragonabile alla comparsa dell’Olanda di Johann Crujff oppure al Milan di Arrigo Sacchi, o all’esplosione di Ayrton Senna, Eddy Merckx o Valentino Rossi. E fu spartiacque per lo sport in generale, dato che il Dream Team aprì al professionismo ai Giochi che in quel 1992 vedevano ancora il ciclismo riservato agli aspiranti pro. Lo ricorda bene l’Italia, che vinse l’oro su strada con il compianto Fabio Casartelli.
Una rivoluzione ai Giochi
Il doppio flop a Seul 1988 e ai Mondiali di Argentina 1990 indusse Usa Basketball a optare per le carte migliori: stop alle Nazionali con i giocatori universitari – acerbi per affrontare le Nazionali dell’Est Europa e i Drazen Petrovic, Toni Kukoc e Arvydas Sabonis – e dentro i big. Nacque un gruppo di dodici leggende – a partire da Michael Jordan, numero uno di ogni epoca, Magic Johnson e Larry Bird – che vinse l’oro senza sforzo apparente, trascendendo l’ambito puramente tecnico.
Una squadra creata anche a costo di dover gestire lotte intestine – Jordan ottenne l’esclusione del nemico Isiah Thomas – e rivalità latenti, dato che la popolarità dell’ingombrante MJ viveva tra alti e bassi, nello spogliatoio. E più di un cinque contro cinque nel «ritiro» di Montecarlo – sede scelta per la passione per il golf di parecchi componenti – fu degno di una partita di playoff Nba. Lontano, però, dall’occhio delle telecamere...
Il primo selfie di sempre
A fare la storia fu anche Magic Johnson: nell’autunno precedente aveva dichiarato di aver contratto l’Hiv, nel febbraio 1992 aveva commosso il mondo con l’apparizione (da Mvp) all’All Star Game di Orlando, e la sua presenza ai Giochi fu da vero ambasciatore nella lotta all’Aids. Charles Barkley, invece, attirò su di sé le critiche, per il gioco duro: «Quell’angolano mi spingeva, gli ho fatto assaggiare i miei gomiti» disse. La superiorità e il fascino di quella squadra fu tale da generare l’antenato di tutti i selfie: autore Arturas Karnishovas, ala della Lituania che vinse il bronzo, che dalla panchina scattò una foto a partita in corso diventata poi cimelio. L’odierna Nba globalizzata è figlia di quell’evento: negli States, pur vincendo le 14 gare tra Preolimpico e Giochi con 47 punti di scarto medio (con il +32 in finale con la Croazia), scoprirono che i buoni giocatori esistevano anche in Europa, dove invece divenne chiaro quale fosse il salto da affrontare per volare oltreoceano. E per questo lunedì notte il premio di allenatore Nba dell’anno è andato a un tecnico – Mike D’Antoni – che ha ringraziato «l’Italia e Dan Peterson, mi hanno preparato alla Nba». Senza il ponte del Dream Team, non sarebbe stato possibile.