Corriere della Sera, 28 giugno 2017
Ocean o di poesia. E di eros di Michael Cunningham
Ocean Vuong è un nuovo, grande, poeta. Non è una cosa che affermo spesso, o con leggerezza. Amo troppo la poesia per essere indulgente.
Vuong non è nuovo solo in senso letterale – Cielo notturno con fori d’uscita è la sua prima raccolta, ha ventotto anni – ma è relativamente nuovo anche alla lingua inglese. È arrivato negli Stati Uniti dal Vietnam a soli due anni, la sua famiglia non parlava inglese e lui lo ha imparato da solo, crescendo. Ha cominciato a leggere a undici anni.
L’inglese non era la lingua madre di Conrad né di Nabokov né di Brodskij, ma sento di poter dire che se la sono cavata tutti piuttosto bene.
Con questa traduzione la poesia di Vuong ha subito in un certo senso una doppia trasmutazione – prima nella mente di Vuong, scrivendo in una lingua che da bambino non parlava, e dall’inglese all’italiano poi.
Il «New Yorker» ha intitolato un ritratto di Vuong Come un poeta di nome Ocean vuole correggere la lingua inglese. Sebbene sia un titolo piuttosto orecchiabile, è, come spesso accade con i titoli orecchiabili, non accurato. Vuong non vuole «correggere» la lingua inglese, nulla lascia pensare che egli creda abbia bisogno di «correzione». Quello che fa, in ogni caso, è scrivere un inglese che mai è stato scritto prima.
Le sue poesie sono al contempo liriche e colloquiali. I due toni – l’«alto» e il «basso», per così dire – collidono in modo potente e profondamente toccante.
Sono certo che questo sia vero anche per la versione italiana, sebbene sappia per esperienza che un buon traduttore re-immagina la parola scritta per onorare l’originale, senza riprodurlo in modo servile; e che un buon traduttore trova modi per ricreare gli echi ritmici e le risonanze interne alla poesia, senza tentare di duplicarli. La poesia non può realmente essere duplicata nella traduzione. Può essere evocata. Può essere re-incarnata, in questo caso nella sua vita italiana.
Nel lavoro di Vuong ci sono anche, naturalmente, elementi che non sono confinati all’utilizzo fresco ed eterodosso che fa del linguaggio.
È raro leggere un giovane poeta – è raro leggere un qualsiasi poeta, da questo punto di vista – che sappia combinare in modo tanto potente il personale con il politico; il cui lavoro sia così spudoratamente autobiografico e al contempo capace di affermare che il politico è il personale, che non c’è nessuna linea netta a separare le nostre vite private dal mondo in cui le viviamo.
È raro, anche, leggere un poeta il cui lavoro sia così schiettamente e spontaneamente sessuale.
L’elemento erotico è spesso effimero, se non del tutto assente, in poesia; i poeti sembrano suggerire che le nostre numerose esperienze di stupore e paura, solo per citarne due, siano in qualche modo separate dai nostri sentimenti più ferali, carnali.
L’eterogeneità del lavoro di Vuong è una delle sue qualità più significative. In Cielo notturno con fori d’uscita c’è un ragazzo che spia suo padre mentre si fa la doccia, e c’è un ragazzo che prova a immaginare la vita del padre in prigione; troviamo una poesia intitolata Ode alla masturbazione e un’altra Senza titolo (blu, verde, marrone): Olio su tela: Mark Rothko: 1952.
Nella sfera poetica di Vuong, non c’è contraddizione tra un padre osservato quale oggetto erotico e un padre osservato quale criminale, né esiste conflitto nel dedicare più o meno la stessa attenzione all’autoerotismo e a Mark Rothko.
Ho sentito definire il lavoro di Vuong sperimentale. Tendo a innervosirmi quando quella parola viene applicata alla poesia o alla prosa. Come la giovane poetessa americana Marie Howe ha scritto, «il mondo non ha bisogno del tuo linguaggio. Non per diventare qualcosa in più rispetto a ciò che è già». Potrei dire, allora, che a innervosirmi è l’idea di un poeta – come spesso accade con i poeti «sperimentali» – che creda che il mondo abbia bisogno del suo linguaggio per divenire più di quanto esso già non sia.
Se il lavoro di Vuong è sperimentale, comunque, lo è nel senso migliore del termine. È «sperimentale» nelle forme o frasi alle volte poco «famigliari» e che costituiscono la maniera più diretta di rispettare e onorare le cose del mondo, di esprimere ciò che non potrebbe essere espresso meglio con nessuno dei mezzi più usuali.
In Cielo notturno con fori d’uscita vediamo un giovane poeta allenare i suoi muscoli estetici ed emotivi, per così dire. Vediamo un nuovo, grande talento mettere alla prova ogni mezzo sia in grado di concepire – ogni soggetto, forma, ogni modo d’espressione – nel tentativo di esprimere quello che non può tecnicamente essere espresso attraverso il linguaggio, come Marie Howe direbbe.
Se leggere buona poesia è sempre un’esperienza inebriante, c’è un’eccitazione particolare quando è scritta da un esordiente. Non solo vi è il senso della scoperta, ma anche quello del futuro che vedrà la produzione di nuove opere; un futuro che, qualsiasi cosa dovesse portare, comprenderà l’osservare il poeta nel suo evolversi, nel suo crescere.
Ciò è tanto più vero se il poeta in questione è figlio di contadini emigrati da una terra e da una cultura lontane da quelle occidentali; un poeta che non trae origine dalle più tradizionali fonti occidentali (la famiglia bibliofila, la «buona» o «letteraria» istruzione); un poeta che, come nel caso di Vuong, è cresciuto rispondendo al telefono in un salone per manicure; un poeta che ci rammenta che il dono della poesia non solo è raro, ma è misterioso, e che dovremmo sempre essere pronti a cogliere le voci che ci parlano da mondi radicalmente diversi, e allo stesso tempo straordinariamente simili a quelli che hanno generato le storie della nostra vita.
(Traduzione di Chiara Spaziani)