Corriere della Sera, 28 giugno 2017
L’affondo della Procura di Roma e i tre fronti aperti per il pm inquisito
ROMA Forse era una scelta obbligata, e forse no. Ma inevitabile o meno che fosse, la decisione della Procura di Roma di mettere sotto inchiesta il pubblico ministero napoletano Henry John Woodcock è destinata a non restare senza conseguenze. E le ricadute andranno probabilmente oltre le presunte responsabilità penali dell’inquirente inquisito. La mossa del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Paolo Ielo e del sostituto Mario Palazzi è il sintomo di rapporti sempre più tesi giunti ora alla soglia della rottura con un collega titolare di indagini collegate, che fino a pochi mesi fa partecipava ad atti investigativi congiunti e adesso si ritrova accusato di uno dei reati più sgradevoli per un magistrato: la fuga di notizie su un’inchiesta che era appena passata – per la parte politicamente più interessante e sensibile – dalle sue mani a quella dei pm romani.
Di violazioni del segreto ce ne sono tante, sebbene molte meno di quel che si dice, e non si ha memoria di un’indagine per scoprirne i responsabili che abbia coinvolto un pm tirato in ballo da altri pm. Inoltre, da quel grande crogiolo che sta diventando l’inchiesta Consip viene fuori un ulteriore paradosso: dopo l’ufficiale dei carabinieri che accusava falsamente i servizi segreti di pedinarlo e ora è accusato di aver passato informazioni riservate ad esponenti degli stessi apparati di sicurezza, ecco che uno dei magistrati più spesso additati come protagonisti del «circo mediatico-giudiziario» si ritrova vittima delle «gogna». Stretto tra l’inchiesta penale, quella disciplinare in Cassazione e l’ipotetica «incompatibilità ambientale» su cui indaga il Csm.
Ma al di là di questi aspetti, l’inedita iniziativa porta con sé ineludibili domande sui motivi di tanta solerzia. Al punto di lasciare spazio a chissà quali retroscena politici. Tuttavia in questo caso c’è una coincidenza di episodi e date che verosimilmente ha pesato. Nel dicembre scorso, non appena il fascicolo è passato per competenza da Napoli a Roma, con i nomi del comandante dei carabinieri Tullio Del Sette e del ministro Luca Lotti iscritti sul registro degli indagati per rivelazione di segreto e favoreggiamento nell’ambito dell’indagine sugli appalti Consip, la notizia è finita sulla prima pagina del quotidiano Il Fatto. Completa del particolare sul trasferimento degli atti nella Capitale. Un sincronismo che ha indispettito non poco gli inquirenti romani, anche perché foriero delle abituali polemiche su ogni indagine che sfiora la politica (e in questo caso si andava dritti sull’ entourage di Matteo Renzi, oltre che sul padre Tiziano), con gli inquisiti pronti a correre in Procura per smentire ogni coinvolgimento.
È come se stavolta, tentando di andare a fondo sull’origine della falla, la Procura di Roma avesse provato a svelare una trappola di cui si è sentita vittima; anche sfidando il rischio di essere accusati di fare un favore a Renzi, il quale di certo non ha mostrato simpatia per Woodcock e le sue indagini. Ora Pignatone e colleghi ritengono di avere elementi sufficienti per considerare Woodcock un protagonista del reato, anziché una vittima come loro, e hanno deciso di contestarglieli. Sebbene indagini di questo tipo non siano mai semplici, e non sembra che sia stata trovata la cosiddetta «pistola fumante» per attribuire con certezza le responsabilità.
In attesa dei prossimi sviluppi, a cominciare dell’interrogatorio del nuovo indagato, resta l’immagine di una storia dove le fughe di notizie si susseguono. Da quella «istituzionale» sugli accertamenti a carico dell’imprenditore Alfredo Romeo, arrivata fino ai vertici Consip (rivelata dal Fatto con la «violazione di segreto» contestata ora), a quella con cui Tiziano Renzi fu avvisato quasi in tempo reale che il suo telefono era stato messo sotto controllo; da quella che ha fatto finire sui giornali molti dettagli dell’indagine ancora riservati, compresi i particolari falsi di cui ora è accusato il capitano dei carabinieri Gian-paolo Scafarto, a quella verso esponenti dei servizi segreti addebitata allo stesso Scafarto. Come se gli «spifferi» fossero più rilevanti – e dirompenti – della presunta corruzione nella gestione degli appalti.