Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  giugno 25 Domenica calendario

Intervista a Ernesto Galli della Loggia

L’Italia raccontata da Ernesto Galli della Loggia è un paese che affonda lentamente. Un invisibile reticolo di sabbie mobili inghiotte ogni cosa: gesti, parole, idee. Verrebbe da dire che è così da sempre, che ogni azione o pensiero si ripetono oltre ogni angusto presente. Era così ieri, come è oggi, non diversamente da ciò che accadrà domani. Vado a trovare Galli della Loggia con la convinzione che nel Tramonto di una nazione (titolo del suo libro appena uscito da Marsilio) ci sia qualcosa di intramontabile. E che, per qualche imperscrutabile sortilegio, le nostre vite siano ferme da tempo. Immobili. Ma di un’immobilità frenetica e per questo paradossale. Galli della Loggia è uno storico appassionato del presente più che delle epoche defunte. Si lascia guidare dal suo istinto per la roulette dell’attualità per puntare le sue fiches: «Lei pensa che il mio lavoro sia simile al gioco d’azzardo?», mi chiede quasi stupito. No, non lo penso. Ho solo a volte la sensazione che sia tempo sprecato.
Le è mai sorto il dubbio di sentirsi prigioniero del presente?
«Prigioniero non direi. Assorbito sì. Di più: attratto. Mi chiedo se questa attrazione non faccia parte del Dna della mia generazione, tesa a coniugare la ricerca delle fonti con la riflessione sulla politica».
Sono gli storici che vogliono cambiare il mondo?
«Mi riferisco agli storici che vogliono capirlo. Non è irrilevante tentare di comprendere che cosa è accaduto nel Novecento a un paese come il nostro».
Per descriverlo utilizza la parola “tramonto”, che suona familiare nella cultura europea.
«È vero, basti pensare a Oswald Spengler e al suo Tramonto dell’Occidente e poi c’è il Crepuscolo degli dei. Ma più che di decadenza, in senso nicciano, parlerei di declino, di una fine non drammatica, non tragica. Dopo tutto siamo una piccola cosa».
Petrolini diceva “una cosetta”.
«Lui ironizzava, ma benché piccola, per noi non lo è. Siamo condannati a essere italiani».
Ma anche all’irrilevanza.
«Non c’è dubbio che siamo una trascurabile realtà geografica, ma abbiamo anche venticinque secoli di storia alle spalle. Lungo questo arco di tempo si è innestato un processo che non è mai stato cancellato, per le più varie ragioni: artistiche, religiose, culturali».
In famiglia le insegnavano queste cose?
«Provengo da una famiglia di media borghesia meridionale. Mio padre medico votò per la monarchia e poi, in mancanza di meglio, divenne liberale. Non aveva tempo da dedicarmi. Diciamo che ho fatto un buon liceo romano: il Mameli. Quando ancora la scuola la dovevi conquistare sui libri. Ebbi insegnanti egregi: Giorgio Candeloro per storia e filosofia; Filippo Maria Pontani per greco e latino».
All’università però si iscrive a Scienze politiche.
«Una facoltà, allora, ad alta densità fascista. Erano i primi anni Sessanta. Come reazione alle provocazioni della destra estrema cominciai a leggere Il Mondo di Mario Pannunzio. Per molto tempo ho conservato l’intera collezione e mi dispiace averla buttata».
Perché la gettò?
«Fu uno degli esiti insulsi del Sessantotto. Credevo che quella roba avesse fatto il suo tempo e per impulso me ne liberai, scioccamente».
A parte i fascisti che accadeva all’università?
«Ben poco per quel che ricordo. Nel 1962 mi iscrissi al Partito socialista. Frequentavo la sezione romana dei Parioli, dove oggi c’è una pizzeria. Finii l’università nel 1966, laureandomi con una tesi di storia economica con Gian Paolo Nitti, nipote di Francesco Saverio Nitti e amico di Ernesto Rossi, al quale volle presentarmi».
Che impressione le fece Rossi?
«Lo vidi in tutto una dozzina di volte. In un paio di occasioni lo accompagnai anche in biblioteca. Mentre lavoravo alle mie ricerche, lo scrutavo che si agitava nella ricerca di certi documenti. Mi pareva posseduto dal raptus investigativo. Era un uomo tutt’altro che formale. A volte sbrigativo, sarcastico come sanno essere certi toscani. Morì nel 1967. Chi voglia farsi un’idea della sua scoppiettante intelligenza deve leggere le lettere che scambiò con Gaetano Salvemini».
Si laurea e che succede?
«Spedii il mio lavoro a Leo Valiani, il quale per tutta risposta mi inviò una lettera di sette facciate».
Sorpreso?
«Decisamente, non avevo particolari aspettative e poi sapevo che era un uomo sobrio e riservato. Aveva un suo studio nella sede milanese della Banca Commerciale. Quando andai a trovarlo vidi un uomo sepolto dai libri e dai giornali. Possedeva vaste conoscenze e parlava sette lingue. Perfino lo yiddish. Che considerava un obbligo per un ebreo. Mi fece avere una borsa di studio alla Fondazione Einaudi e divenne mio tutor. Fu così che dal 1970 al ’73 mi trasferii a Torino».
Anni politicamente turbolenti.
«Presi in affitto, con altri tre ricercatori, la casa che era stato il vecchio studio di Carlo Levi. I miei coinquilini divennero militanti di Lotta Continua e la casa si trasformò in una specie di base per le riunioni politiche. Lì cominciai a capire cosa fosse l’estremismo».
Ne restò immune?
«Totalmente. Oltretutto, vedevo l’abissale ignoranza di quei tre amici che della storia avevano una concezione mitologica ed eversiva. Scelsi di schierarmi dalla parte del Pci, dalla parte riformista».
Ha mai frequentato l’editore Giulio Einaudi?
«Credo di averci parlato una sola volta. Di lui sapevo quello che si diceva in giro: snob, arrogante, senza un autentico bagaglio culturale e tuttavia capace di circondarsi degli uomini migliori. A un certo punto scoppiò una polemica, non con lui ma con la casa editrice».
Perché?
«I dissapori nacquero dopo che ebbi scritto un articolo sulla loro produzione editoriale. Giocando sul marchio dello Struzzo qualcuno in redazione lo titolò “la cultura del pappagallo”. Mi guadagnai così la fama di nemico della casa editrice. In realtà, mi ero limitato a dire che i libri della loro collana di storia erano parziali, faziosi a volte fino al ridicolo».
Ci furono reazioni?
«Ci fu un coro di proteste tra cui spiccarono le voci di Furio Diaz e Norberto Bobbio. Mi si accusava di aver resuscitato il fantasma dell’egemonia culturale della sinistra e in particolare del Pci. Si utilizzò l’argomento che in Italia non era mai stato impedito a nessuno di pubblicare libri e articoli che andassero in direzione diversa. Ma la risposta più dura arrivò da Cesare Cases, per il quale ero diventato “Ernestino, il giovane nevrotico”. Cases confuse volutamente “egemonia” con “dittatura”. Non mi ero mai sognato di dire che la casa editrice Einaudi imponesse la sua produzione editoriale attraverso la censura, ma semplicemente che il legame tra politica e cultura ebbe per essa quasi sempre un inconfondibile orientamento».
A quando risale la polemica?
«Era il 1990, all’indomani della caduta del muro di Berlino. Non mi aspettavo che i molti intellettuali del Pci facessero autocritica, ma almeno una discussione aperta questo sì che l’avrei augurata».
Non ha l’impressione che quel tipo di polemiche giovasse molto ai giornali e meno alla società civile che nel frattempo si era liberata da quei condizionamenti?
«Sono convinto anch’io che sul finire degli anni Ottanta i tempi incubavano nuove prospettive e scelte diverse. Ma era giusto far finta che il passato non esisteva più?».
Beh, proprio agli inizi degli anni Sessanta nasce l’Adelphi, quasi in contrapposizione alle scelte editoriali della Einaudi.
«Adelphi vide con largo anticipo che l’egemonia culturale non era necessariamente una conseguenza della politica. Si trattò di una svolta importante che venne pienamente alla luce agli inizi degli anni Ottanta. Non entro nel merito delle sue scelte editoriali, ma ho l’impressione, forse errata, che l’Adelphi abbia avuto almeno in parte un effetto dissolvente sul sistema politico italiano».
In che senso?
«Comprese la fine del lungo dopoguerra, dal 1945 al 1989, con almeno vent’anni di anticipo. Dico una boutade: non si poteva, come fece una certa sinistra, leggere Carl Schmitt e poi pensare che la Costituzione italiana fosse la più bella del mondo!».
Tra la fine della guerra e oggi ci sono state più Italie. Quella alla quale riconosciamo i maggiori meriti si realizzò sul finire degli anni Cinquanta. Perché oggi fatichiamo a riprendere quello slancio?
«Potrei rispondere che nulla è destinato a durare troppo a lungo. Ma se analizzassimo le ragioni di un successo vedremmo che i fenomeni storici richiedono quasi sempre una maturazione lenta. L’Italia, invece, divenne improvvisamente ricca e democratica. Ci dimostrammo inadeguati, meglio impreparati, a gestire quella storia di successo».
Perché?
«Ho l’impressione che l’essere entrati a pieno diritto tra i paesi più industrializzati richiedeva un bilancio vero della nostra storia che avrebbe imposto un cambio di mentalità, o meglio di strada. La partita l’abbiamo persa negli anni Ottanta, quando non capimmo che in politica, come altrove, occorreva coraggio unito alla fantasia. Non abbiamo avuto né l’uno né l’altra. Ci siamo asserragliati dietro ai privilegi corporativi fino a scivolare in questo osceno presente che ha smarrito il senso della politica come professione responsabile. È sufficiente guardare al nostro Parlamento per imbattersi in un esercito di lazzari».
La iscrivo direttamente al partito degli antitaliani.
«A chi pensa?».
Prezzolini, Longanesi, Montanelli, lo stesso Flaiano. Gente che sviluppò un pessimismo profondo per le sorti politiche e civili del paese.
«Lascerei da parte Flaiano, ma gli altri nomi appartengono a un sentimento che per troppo amore ha finito col fornire una lettura di destra del paese. Cogliendone soprattutto l’incorreggibilità. Da sinistra, invece, si è pensato che bastava una buona dose di pedagogismo per correggere certi difetti. Da entrambe le posizioni non è uscito niente di veramente efficace».
Rinuncia a una visione pessimista?
«No, penso che vada collocata in una riflessione diversa dalla politica di medio e piccolo cabotaggio. Penso a Ernesto Rossi, a Mario Pannunzio. C’è una bella differenza tra costoro e, che so, Montanelli o Longanesi. Tra morale e moralismo. Il grande moralista, dopotutto, nasconde un lato malinconico».
Lei è malinconico?
«Sono un segno d’acqua e dunque, dovrei ammettere, incline alla malinconia. Ma sono anche tenace negli affetti».
Perché ha voluto fare lo storico?
«Forse perché non ho avuto abbastanza coraggio per fare il politico. O comunque perché la politica mi ha sempre interessato se letta con il filtro della storia».
Le chiedevo, all’inizio della nostra conversazione, se non avvertiva un peso eccessivo del presente. Non ha mai pensato, come per esempio è accaduto a Federico Chabod o Delio Cantimori, di scrivere anche del Quattro e Cinquecento, diciamo di un’epoca passata?
«Sebbene ami particolarmente quei secoli e li abbia frequentati non mi azzarderei mai a scriverne. Otterrei solo risultati impressionistici. Chabod, come del resto Cantimori, furono tecnicamente storici dell’età moderna. E quella modernità abbracciava più secoli».
Come considera il lavoro di Renzo De Felice e Rosario Romeo?
«Ho avuto rapporti con entrambi solo sul finire della loro vita. Non ho fatto parte della scuola di De Felice, mentre Romeo è stato un personaggio solitario. Un unicum. Hanno lavorato a due monumenti di scarsa leggibilità. Producendo migliaia di pagine sull’unità d’Italia e sul fascismo. Mai tradotte all’estero. Eppure se mi capita di sfogliarle mi sembra a volte di imbattermi in scrigni preziosi di idee e intuizioni. Penso che siano stati i due nostri maggiori storici della seconda metà del Novecento».
Avverto come un senso di insoddisfazione.
«Sono un insoddisfatto di natura. A volte penso che mi sarebbe piaciuto essere come Chabod o Croce o altri grandi della nostra storiografia. Loro si ritenevano soddisfatti? Non lo so, ma è probabile di no. Cos’è uno storico? È uno che si fa domande sul mondo o si chiede perché le cose sono andate come sono andate».
Le sembra sufficiente?
«Forse è solo il primo passo. L’importante è non perdere mai di vista ciò che si è. Oggi nessuno vuole più essere élite culturale. La nostra democratizzazione è stata pervasiva. Ha distrutto ogni carattere di ufficialità. Non credo sia stato un bene».
Le élite non hanno dato una grande prova di sé.
«Soprattutto quelle depositarie del privilegio. Le altre sono state affossate per motivi diversi».
Pensa al populismo imperante?
«Andrei cauto sulle definizioni. La democrazia non può non essere anche populista se è governo del popolo. Sto parlando di una componente ideologica fondamentale nelle forze politiche del Novecento che, con pedagogismo e responsabilità, si schierarono non dalla parte delle opinioni del popolo ma delle sue necessità».
Dunque un populismo senza popolo?
«Il popolo è ormai ridotto a plebe. Delusa dal miraggio della globalizzazione e del multiculturalismo. Due eventi che hanno prodotto enormi disagi tra la gente e molta rabbia nei riguardi di quella élite che glieli ha spacciati come il sogno di una vita migliore».