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 2017  giugno 25 Domenica calendario

L’arte lenta del mio teatro. Intervista a Robert Wilson

Il gigante che ha entusiasmato e conquistato la scena teatrale mondiale da quarant’anni in qua, da Sidney a Oslo, da Berlino a Rio de Janeiro, il regista più geniale, è ancora oggi, a settantacinque anni, proiettato verso il futuro. Robert Wilson racconta con entusiasmo dei quindici giovani attori dell’Accademia Silvio D’Amico di Roma con cui sta lavorando, ancora libero di offrirsi a sperimentazioni come quando nel ’72 realizzò Ka Mountain, uno spettacolo di sette giorni in Iran, o nel ’76 quando, poco più che trentenne, firmò Einstein on the Beach che cambiò per sempre la percezione del teatro. Sempre elegante, sempre pieno di impegni – per ottobre prepara Luther Dancing with the Gods nella Pierre Boulez Hall di Berlino, per il 2018 progetta in Italia, con la Change Performing Arts, Edipo re in tre versioni, per un teatro greco, per l’Olimpico di Vicenza e per i teatri al chiuso – con i giovani diplomandi italiani il regista americano sta riallestendo Hamletmachine del più grande drammaturgo tedesco dopo Brecht, Heiner Müller, a trentuno anni dalla prima versione con gli studenti della New York University, seguita pochi mesi dopo da un’altra con gli allievi della Kunsthalle di Amburgo.
Da allora lo spettacolo non era stato più ripreso. L’occasione la offre il Festival di Spoleto dove da dieci anni Wilson non manca mai (e per l’anno prossimo si dice che il direttore Giorgio Ferrara voglia portare il suo Garrincha, epica in musica del grande calciatore) e dove il 7 luglio al Teatro San Nicolò Hamletmachine torna in scena, per poi girare in autunno da Vincenza a Roma. Müller definì lo spettacolo “una combinazione di matematica e giochi per bambini”, composizione di voci e suoni amplificati e registrati, movimento, danza, luce, design, musica con la conturbante drammaturgia dello scrittore tedesco, una storia “contro l’illusione che si possa rimanere innocenti in questo nostro mondo”.
Lo pensa anche lei, Mr. Wilson?
«Finché si è giovani quell’innocenza si preserva. Ed è per questo che i giovani mi piacciono. Aprono nuove prospettive al mio lavoro e dedico molto tempo per sostenere il loro. A WaterMill, la mia fondazione a Long Island, ogni estate raduniamo per due mesi oltre cento giovani artisti da tutto il mondo, musicisti, pittori, ma anche giardinieri, cuochi, pittori... che progettano assieme, interagendo».
Non è molto diverso da come lavoravate voi, giovani creativi degli anni Settanta: lei, Philip Glass, Lucinda Childs, Tom Waits, Susan Sontag, Laurie Anderson, Lou Reed?
«Erano anni particolari. Avevamo forti visioni. E spericolate. Mi ricordo che Philip Glass scriveva musica e faceva il tassista e quando all’inizio nessuno voleva produrre il nostro Einstein on the Beach, mi indebitai fino al collo e lo produssi io».
Cosa univa voi tutti?
«Eravamo, chi più chi meno, della stessa età. Eravamo il prodotto di quel tempo. Ancora oggi siamo una specie di strana famiglia, siamo in contatto abbastanza frequentemente».
Nell’epoca della velocità, il suo teatro ama dilatare il tempo.
Perché?
«Sa un aneddoto? Quando lavoravo a Hamletmachine, Heiner Müller mi disse solo che lo spettacolo non poteva durare più di quarantacinque minuti. Quando venne a New York alla prima ero in ansia perché era lungo più di due ore. Invece lui mi disse che era il miglior allestimento da una sua opera. Sì, il teatro per me è la combinazione di spazio e tempo, ma non quello della quotidianità, della vita normale. Sul palco è tutto diverso. La lentezza è un artificio che in scena è qualcosa di più onesto, più vero. È la ragione per cui, fin da giovane, ero affascinato da Marlene Dietrich».
Perché la Dietrich?
«Il suo canto era lento, caldo, ma il suo volto era gelido, freddo, non muoveva un muscolo. Il suo potere stava tutto in quel contrasto, totalmente artificiale. Lo stesso avviene con il mio teatro. Io do una forma rigorosa, evito il naturalismo, la verosimiglianza».
In che rapporto sta con il mondo, con la vita reale, allora?
«Il teatro è solo un luogo in cui, idealmente, le persone condividono qualcosa per un breve periodo di tempo. Non può certo cambiare il mondo. Il teatro non è la scuola. Non si tratta di insegnare o spiegare alla gente. Si tratta di aprirsi a qualcosa. È la differenza tra Donald Trump e Barack Obama: Trump parla al popolo, parla ai cittadini, Obama parlava con loro».