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 2017  giugno 25 Domenica calendario

Sulle tracce di Frida cercando un’altra vita

Non a tutti è data la possibilità di un viaggio esistenziale. Per questo Ulisse deve aver guardato con gratitudine a Omero, mentre quello creava per lui, parola dopo parola, il racconto che si sarebbe sedimentato nell’immaginario di molti. Per questo Alonso Quijano, pur nella sgangherata follia, provò riconoscimento per Cervantes quando questo scrisse il suo nome per raccontare dell’uomo che, superati i cinquant’anni, volle diventare Don Chisciotte. Viene voglia di inseguire i protagonisti dei viaggi che mutano la propria vita. Forse perché ciascuno, nel proprio intimo, desidera il viaggio come spaesamento, caduta e risalita. Il viaggio, non come piacere, distrazione o riscoperta di luoghi, quanto piuttosto come la messa a fuoco di quel che stiamo per diventare. Grandi e piccole scoperte di sé. Che arrivano quando meno ce lo aspettiamo.
Qui raccontiamo cinque storie emblematiche. A partire da quella di Jean Pierre Léaud. Perché nulla è più irreversibile dell’abbandono dell’adolescenza. Nei giorni dell’autunno del 1958 era relegato, come ogni anno, in un collegio a Pontigny. In un frammento di terra a nord-est di Auxerre: L’École des Cadets de France Les Verrières. Un cancello, la terra battuta, la desolazione delle solitudini provinciali. Lontanissimo dalla vita e dalla città dove tutto accade. Aveva compiuto quattordici anni. François Truffaut aveva appena pubblicato su France- Soir l’annuncio con cui cercava il protagonista adolescente del suo primo lungometraggio: Les 400 Coups. Quando salì sul treno Jean Pierre aveva chiaro in testa che in quel convitto non sarebbe mai più tornato. I vagoni si scuotevano salendo verso nord- ovest. Jean Pierre non riusciva a stare fermo. Cosa ci sarebbe stato oltre quel fremito, oltre quell’irrequietezza? La vita quali promesse avrebbe mantenuto? Passò Fontainebleau e non ne immaginò neppure i corridoi e le infinite vetrate. Melun. Créteil. Parigi. Durante il provino, mentre parlava, dopo aver compiuto quel viaggio, quando non sapeva ancora che Truffaut lo avrebbe scelto, nei suoi occhi c’era eccitazione, spaesamento e ebbrezza. Non poteva intuire che il cinema, con un’immaginifica rete, lo avrebbe ingabbiato, nella figura di Antoine Doinel, ancor più sottilmente di quanto aveva provato a fare il convitto da cui era fuggito.
Per evitare le battaglie meschine della fine di un amore, Joni Mitchell attraversò l’intero corpo degli Stati Uniti. Era il 1976. Aveva vissuto l’arco prezioso dei giorni felici e s’era appena fatta sorprendere dal suo dissiparsi. Aveva toccato l’incanto concreto dei gesti offerti e ricambiati. Poi era stata sospinta verso la rabbia. Partì dal Maine in auto. Da sola. Migliaia di chilometri per tornare a Los Angeles e lasciarsi alle spalle il disincanto. Fu un’impresa interminabile. Percorse la Interstate 95, l’arteria più grande di tutta la East Coast. Con sé aveva una chitarra. Incontrò i giganteschi camion bianchi arenati come balene alle pompe di benzina, vide le roulotte con dentro il sortilegio incomprensibile delle famiglie. Il New Jersey, la Virginia, la Carolina del Nord. Qualche parola, qualche nota. I primi abbozzi di canzoni. Diverse da tutte quelle che aveva scritto prima. Quando arrivò in Georgia, nei pressi di Savannah, in una stanza al DeSoto Hilton, Joni cominciò a accettare quel che stava accadendo. Riempì la stanza di cibo e vitamine. Al mattino andava a correre. Ancora non bastava però. Da lì in poi indossò una parrucca rossa e si fece chiamare Charlene Latimer. Arrivata a Los Angeles, d’estate registrò le canzoni. L’album prese il titolo di Hejira. Era tornata a farsi chiamare Joni Mitchell, ma era già divenuta un’altra persona.
Era inverno quando Erwin Schrödinger fuggì dal cerchio che la borghese Zurigo gli aveva stretto intorno. Era il 1925. Si avvicinava Natale. Aveva trentotto anni. Aveva raggiunto l’età in cui è raro che uno scienziato riesca a svelare qualche regola che sta celata nel mondo. Partì da solo. Costeggiò le acque del lago in cui si era tuffato più volte. Qualche studente lo ricordava sul bagnasciuga in costume a scrivere su un’improvvisata lavagna che aveva portato con sé. Passò Thalwil e poi Wädenswil. Prima di partire aveva inviata una lettera a una sua ex fidanzata con la richiesta di raggiungerlo a Arosa. Nessuno sa chi fosse. Superò il lago di Walenstadt, nel cantone di San Gallo, e poi Chur. Bruscamente cominciò a salire il paesaggio montuoso dello Schanfigg. Arrivato a Arosa, si perse a guardare il picco del Weisshorn, oltre quattromila e cinquecento metri. Lontano da Zurigo trovò ricompensa negli abissi della sensualità. Il comportamento delle particelle più piccole degli atomi e il cuore che batteva. Il corpo premuto contro la pelle dell’altra. La vita si avvicinava fremente, s’agitava e cercava il tempo giusto. Il movimento, l’onda. Il 27 dicembre nella lettera che spedì all’amico Willy Wien, scrisse che stava per afferrare ciò che fino ad allora gli era sfuggito. Rimase a Arosa fino al 9 gennaio. L’equazione di Schrödinger, che portò a una revisione della fisica del mondo alla più piccola dimensione, sarebbe stata pubblicata solo qualche settimana dopo.
Dal nord severo di Torino verso un’idea tropicale del sud. Dalle rigidità dell’architettura istituzionale verso un sogno arcaico. Paolo Soleri, l’architetto che inseguì la città utopica, viaggiò lungo l’Aurelia nel 1951 a bordo di una casa-mobile che si era costruito da sé. Aveva vissuto negli Usa. Aveva lavorato nello studio di Frank Lloyd Wright. Ma non era ciò che cercava. Un passo più in là, un movimento ampio o breve. Andare via proprio in un certo momento. Le curve strette e vertiginose prima, poi la calma della Maremma. L’Aurelia è un fantasma. Una storia piena di enigmi. Le origini del nome, il tracciato originario. Una via riemersa come un fiume carsico. Qualcosa di perduto e reinventato. Le paludi. Le bonifiche. Per questo, nell’attraversarla, è dato che accada qualcosa di magico. Soleri arrivò a Vietri sul Mare. Il suo talento visionario incrociò quello immaginifico di Vincenzo Solimene, un artigiano che lavorava la ceramica. I due si avvicinarono fino a far nascere un’amicizia. Ciascuno offrì all’altro qualcosa. Soleri diede vita a un edificio a ridosso della roccia e a un passo dal mare. Divenne la fabbrica di Solimene. Da quel viaggio, Soleri trasse la spinta per andare a alimentare nei deserti dell’Arizona il sogno di Arcosanti, una città che nessuno aveva mai avuto il coraggio di pensare.
Infine, Frida Kahlo. In un altro antro di mondo. In un altro tempo. I primi giorni di settembre del 1932. Salì sul treno che l’avrebbe portata da Detroit fino a Città del Messico. E da lì fino a Coyoacán. Sua madre stava morendo di un male incurabile. Glielo aveva scritto la sorella con un telegramma. Un tifone si era abbattuto sulla regione travolgendo strade, fiumi, uomini e linee telefoniche. Dal finestrino, Frida vide la sponda orientale del maestoso Lago Erie, le grandi distese agricole e le fabbriche che chiudevano durante la Grande Depressione. Pochi giorni prima di partire, il 30 agosto, aveva cominciato a dipingere un quadro. Solo pochi giorni per abbozzarlo. C’erano un letto e una donna con le gambe divaricate. Il capo del corpicino di una nuova vita. Poi la partenza non rinviabile. In una foto scattata durante quel viaggio, la si vede di profilo osservare il paesaggio al di là del finestrino. Il volto sembra quello di una statua antichissima sopravvissuta al trascorrere delle ere. Appena un paio di mesi prima aveva subìto un aborto. Quando Frida arrivò, la madre fu sottoposta a un’operazione. Tre giorni dopo già non c’era più. A metà ottobre, Frida tornò a Detroit. Solo allora fu in grado di finire il quadro che aveva iniziato prima della partenza. Nel dipinto, intitolato Mi nacimiento, c’era il bimbo non nato, c’era la madre che aveva perso la vita. E c’era lei che, dopo avere attraversato la tempesta, nasceva di nuovo.