la Repubblica, 25 giugno 2017
La madre di Leonardo «ritrovata» a Oxford
Nella sala più famosa del Louvre, dopo esserci aperti un varco nella folla e aver raggiunto infine un punto d’osservazione accettabile, non abbiamo alcuna voglia di pensare che la Gioconda sia il ritratto di una signora borghese. La nostra fantasia è addestrata a resistere a qualunque nesso immediato tra immagine e documento. Nella Gioconda la nostra viscerale vocazione all’ambiguità, al sovrannaturale e all’ineffabile ha trovato il suo talismano. Il mito, il mistero, la metafora nascosta noi li pretendiamo. E se ritratto deve proprio essere, sia una rappresentazione trans dello stesso artista, o di un suo amante, o della madre illegittima di un Medici o di Iside, la dea egizia.
Invece, chi dipinse quel volto illustrò una donna reale, umana, fiorentina, che aveva tanto di nome e cognome, e un marito e diversi figli. Si chiamava Lisa ed era figlia di Antonmaria Gherardini, proprietario terriero; il marito si chiamava Francesco del Giocondo e svolgeva attività mercantili (tra l’altro, importava cuoio dall’Irlanda). Partorì sei volte. Due figlie furono destinate al convento, come anche due sorelle ( una delle quali monachella scandalosa). Francesco nel 1503 commissionò a Leonardo, che era figlio del suo notaio, un ritratto di lei, allora ventitreenne. E via dicendo… Nomi, famiglie, professioni, luoghi, date, conti, tutto l’ambiente sociale in cui il quadro leonardesco venne al mondo nonché le origini stesse di Leonardo sono ora trattati in un’illuminante monografia, Mona Lisa, di Martin Kemp e Giuseppe Pallanti, pubblicata da Oxford University Press. «Perché ancora un libro su Monna Lisa?», domandava Martin Kemp qualche sera fa a Oxford, festeggiando il lancio con alcuni colleghi in una sala del Trinity College. «Giuseppe Pallanti aveva scoperto certi documenti che potevano aiutare a identificare la madre di Leonardo, della quale fino a oggi nulla si sapeva, e me li mostrò. Gli erano occorsi anni di pratica con testi quasi illeggibili, pieni di nomi sconosciuti e abbreviazioni oscure. Gli proposi di scrivere un libro con me». Alle sue spalle un gigantesco mosaico composto delle più varie reinterpretazioni del dipinto ci ricordava che l’obiettività della ricerca si scontra continuamente con il proliferare di fantasmi. Signore dell’ironia, oltre che degli studi leonardeschi, Kemp ci ha mostrato con fulmineo gesto che anche le calze che indossava erano decorate con la faccia della Gioconda.
La scarsità di dati aveva lasciato circolare fino a oggi la favola che Ser Piero, il padre di Leonardo, avesse sedotto una schiava. «Questa è finzione romantica». Kemp mi ha detto il giorno dopo davanti a un caffè, con la serenità di uno che ne ha viste e sentite tante. «Schiave a Vinci in quegli anni non ce n’erano. Vero è che il bambino crebbe con i nonni paterni. Adesso, però, abbiamo gli elementi per ammettere che una madre ci fosse, una povera diavola, che si chiamasse Caterina di Meo Lippi e che nell’ultimo anno della sua vita si ricongiungesse a Milano con il figlio, ormai acclamato artista. Un foglio autografo, infatti, prova che Leonardo pagò il funerale di una certa Caterina, il che suggerisce, grazie anche alla concordanza delle cronologie, che questa possa corrispondere alla persona stessa che gli aveva dato la vita, qualunque sia la ragione per cui Leonardo la menzionasse con il nome di battesimo. Ritengo che allo stato attuale delle prove possiamo essere ragionevolmente sicuri di aver trovato la madre di Leonardo, cosa che a Vinci, tra l’altro, è stata accolta con grande favore. Certo, al catasto sarebbe stato bello mettere le mani su una storia compiuta che ci togliesse ogni residuo di vaghezza. A ogni modo, il ritrovamento di Caterina ha il profumo della verità».
Con totale certezza, invece, nuovi documenti permettono di identificare la casa dei nonni paterni, sempre a Vinci, e di spostare lì la casa natale di Leonardo dalla costruzione in cui la si è tradizionalmente collocata. «Questa scoperta però», ha osservato Kemp, «va trattata con una buona dose di diplomazia».
Quando parlo con lui, sono sempre ammirato dal senso di responsabilità e dalla cautela che ogni suo pensiero esprime.
Uno dei suoi principi è: «Ci sono sempre nuove cose. Il futuro è pieno di scoperte».
La ricerca per lui, che si è istruito primamente sui libri di biologia e di fisica, è scandaglio delle conoscenze positive, rispetto della chiarezza, resistenza ai facili entusiasmi e perfino rinuncia all’utilizzo di nuovi dati, quando la funzione di questi non sia identificabile in modo irrefutabile, come nel caso delle rilevazioni spettrografiche, cui è dedicato il capitolo finale del libro. Le tecniche del francese Cotte oggi riescono a penetrare gli strati del colore con una precisione mai raggiunta prima, mostrando una vera e propria geologia di segni profondi. Ma che cosa vediamo in quel che vediamo? Quelle tracce intorno alla testa di Monna Lisa, sì, sono tracce, ma sono per davvero da considerarsi spille per i capelli?
La collaborazione tra Kemp e Pallanti ha la bellezza dello scambio fiducioso e necessario, cosa tanto più notevole se si considera la diversa formazione dei due. «Pallanti è una cosa rara», mi ha detto Kemp. «È un archivista eccellente, modesto e rigoroso, che fa quello che nessuno storico dell’arte ormai è più portato a fare. Meno male che esistono ancora persone come lui…». Dopo essersi laureato in scienze politiche, Pallanti ha sempre insegnato economia in istituti secondari, a Firenze, portando avanti le sue indagini in piena indipendenza, con l’entusiasmo della libera investigazione e con il generoso desiderio di affidare alla cura di altri le sue scoperte. «Lo studio spontaneo ha vantaggi non da poco», mi ha scritto lui stesso di recente, «quando ci sono di mezzo gli archivi, perché lì il lavoro può richiedere tempi assai lunghi, che mal si accordano con i calendari accademici e con l’orologio delle scadenze editoriali. A volte, poi, non si arriva da nessuna parte. Però, quando una meta è raggiunta, la soddisfazione è grande. Attraverso i documenti si entra nelle case della gente, nella vita delle persone, si ricrea un contesto storico lontano». Delle famiglie Gherardini, Del Giocondo e Da Vinci aveva cominciato a interessarsi sul finire degli anni Novanta, partendo dal Chianti, sua terra di provenienza, dove i Gherardini avevano i loro terreni. Nel 2004 ha pubblicato una monografia su Monna Lisa.
E il quadro in tutto questo dove è andato a finire? No, non si è disgregato dietro i bagliori delle ricostruzioni genealogiche e socio- economiche. Una buona parte del libro si dà a esplorare la complessità culturale e le ascendenze letterarie del dipinto, oltre che le vicende della sua fortuna. Perché due sono le Monne Lise; quella di Francesco del Giocondo, contemporanea al suo mondo, e quella di Leonardo, contemporanea ai posteri, immancabilmente attuale. Nell’arte la realtà storica diventa altro, e la materialità dell’occasione assurge a durata assoluta, a trasfigurazione perenne. Ma che cosa affranca la seconda Monna Lisa dalla cronaca spicciola, portandola via dal cimitero e rendendola testimone, alla fine, di null’altro che la sua condizione di capolavoro? Basta la nostra ammirazione? No, l’ammirazione è un effetto, non una causa. La causa sta nell’intelligenza ambiziosa di Leonardo: creare un’immagine che, attraverso il ritratto di una moglie, ripetesse l’esperienza trasumanante dell’eros supremo, risalendo fino alle radici della spiritualità stilnovistica. La Monna Lisa dipinta, insomma, nasce classica.