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 2017  giugno 24 Sabato calendario

Signora Velocità

I super motori e l’anno da record per vincere 7 gp 48 minuti in meno
BAKU Mordono l’asfalto, queste belve di macchine. Le monoposto 2017 riportano a un’arcaica violenza, alla fame preistorica dell’umanità, al desiderio di sbranarsi il mondo. Veloci, velocissime, talvolta ingovernabili. Ancora troppo mute per i nostalgici di quei rombi che sconquassavano lo stomaco, ma nel loro mutismo divorano il tempo. Nei primi sette gran premi della stagione si è vinto con 48 minuti in meno rispetto all’anno scorso. Da Melbourne a Montreal, la strada fino all’arrivo sotto la bandiera a scacchi è stata percorsa in 10 ore 57 minuti e 33 secondi. Nel 2016 quelle lenze di auto, con gomme di 20 centimetri più strette, ci hanno impiegato per vincere sulla stessa distanza dall’Australia al Canada ben 11 ore 45 minuti e 37 secondi, addirittura peggio del campionato precedente (nel 2015: 11 ore 26 minuti e 15 secondi). Non c’entrano le safety car. Anche a sommare i tempi del giro più veloce, questo mondiale sta dimostrando una certa frenesia: 10 minuti e 4 secondi messi tutti insieme i sette appuntamenti, l’anno passato ce ne sono voluti 10 di minuti e 22 secondi e nel 2015 addirittura 10 minuti e 30 secondi. In media, i giri più veloci lo sono stati di 2,5 secondi a Gp.
A Baku città dei venti, si prevedono ulteriori slanci. Su un tracciato mascalzone per ambiguità, promiscuità di curve a gomito come Montecarlo e rettilinei come autostrade sullo stile Monza, la poca confidenza con la letteratura storica locale (è solo la seconda edizione) aprirà frontiere inesplorate: l’unico testimone di tutti i record qui, Nico Rosberg, si è ritirato. Il tedesco fece qui il suo secondo Grande Slam del motorsport: vinse (in 1’32’’523) dalla pole (1’42’’758), segnò il giro veloce in 1’46”485 (ma in Q2 segnò 1’42”520). Più rapido di lui, ma non ufficialmente, fu Valtteri Bottas allora in Williams: la telemetria registrò, appena prima della staccata di curva 1, gli stratosferici 378 km/h del finlandese. Mai una monoposto di F1 aveva raggiunto un picco così alto nella storia, la beffa è che non è mai stato messo agli atti (lo è quello di Juan Pablo Montoya, 372.6 km/h con la McLaren a Monza nel 2005). Però è un parametro importante per Sua Signora Velocità, che si sente a suo agio in Azerbaijan: sui 6.003 metri (il secondo come sviluppo, dopo Spa) e un rettilineo di partenza di infiniti 2,2 chilometri, si va in media a 211 km/h, la curva più rapida è la numero 16 accanto al Four Season Hotel (170 km/h), la più lenta è a 86 km/h alla curva 8. Se la tendenza è tendenza, allora è più che probabile che quest’anno verrà abbassato il record della pista non appena piloti e macchine entreranno più in confidenza con questo astruso enigma di tracciato. Ieri nelle prime prove hanno fatto errori un po’ tutti uscendo dai ranghi e schiantandosi sui muri soprattutto nell’imbuto della curva 8 sotto le guglie di un castello medievale. Pure l’enfant terrible olandese della Red Bull, Max Vertsappen, che si è aggiudicato entrambe le pratiche piazzando il miglior tempo assoluto in 1’43’’362 (a una velocità media di 209,078 Km/h nella seconda manche), ha incocciato nel finale della seconda sessione nelle barriere dopo una pestata sui freni in entrata di curva 1: il lato sinistro della sua bestiola blu scintillante si è accartocciata danneggiando violentemente il retrotreno. Ma i distacchi con i primi cinque piloti si contano in soli due decimi: dietro all’olandese la Mercedes di Valtteri Bottas, l’altra Red Bull di Daniel Ricciardo e le due Ferrari di Kimi Raikkonen e Sebastian Vettel (Lewis Hamilton solo decimo a oltre un secondo dai migliori). Ma è ancora presto, questi sono solo ruggiti delle belve in gabbia.
Alessandra Retico
Petrucci Style come impennare su una ruota sola a 340 km all’ora
ASSEN Danilo Petrucci è chino sulla sua Ducati Pramac, che in rettilineo impenna per la velocità. La ruota davanti s’alza di quasi mezzo metro. La Rossa vola a oltre 340 all’ora, come conferma un impressionante fotogramma tratto dal canale ufficiale della MotoGP. La cosa ancora più incredibile è che in quel momento così delicato il pilota italiano non dubita. E soprattutto non molla il gas. Anzi. Cinquanta metri dopo arriva a toccare i 349.8 km/h, restando in perfetto equilibrio. «Sì, ho continuato ad andare al massimo», racconta. Che follia, Danilo. «Niente affatto: era tutto calcolato». Calcolato da chi? «Dal mio amico segreto. Il mio angelo custode».
L’amico segreto è una scatola grande come due cellulari insieme, inserita nella moto un po’ come si faceva con le cassette Vhs dei videoregistratori. Pesa 300 grammi e contiene un milione di numeri, tra dati e algoritmi. Si chiama Ecu, acronimo che sta per Engine Control Unit. Centralina elettronica. Uno strumento che “accompagna” il pilota nella corsa e con le marce più alte ne corregge la guida fino anche a limitare la potenza del motore, quando è meglio evitare rischi. O gli consente di andare oltre il limite della logica – come con Petrux, sul rettilineo – perché sa che tutto andrà per il meglio. Molti ne parlano, tutti ne hanno una: ma chi l’ha mai vista per davvero? Come un angelo custode, appunto. «Al termine di ogni sessione di prove la centralina accumula informazioni, che al box vengono scaricate su di un computer. In questo modo, rispondendo anche alle sollecitazioni dell’atleta – “Qui sento di poter andare più forte”, “In quella curva vibriamo troppo” – si calcolano le variabili della gara: consumo delle gomme e del carburante, angoli di piega e rollìo del mezzo». Cri- stian Battaglia, ingegnere elettronico è il tecnico che gestisce la centralina di Petrucci. «Lavora al posto del pilota, liberandolo da una serie di problemi e pensieri: permettendogli così di risparmiare energie mentali e fisiche». Quanto può incidere? «Fino al 20%. Dimezza la fatica. Fondamentale non tanto sul giro secco, ma nel corso di tutta la gara. Fornisce indicazioni precise, in alcuni casi ‘taglia’ la potenza: però non può impedire tutto, lascia un margine di discrezionalità a chi guida. Perché alla fine è sempre il pilota, a fare la differenza».
La prima volta venne usata quasi 15 anni fa dalla Honda durante la 8 Ore di Suzuka. Che invenzione. In MotoGP è stata introdotta dal 2004, quando erano ancora freschi i tempi del passaggio al motore a 4 tempi. All’inizio ogni casa costruttrice aveva elaborato la propria centralina, e le esperienze accumulate durante i Gp si sono poi rivelate utilissime nella produzione di moto e scooter destinati al pubblico. Da due stagioni la Dorna – che vuole maggiore equilibrio in pista, cioè più spettacolo – ha imposto la centralina comune. Un “cuore” elettrico uguale per tutti e fornito dalla Magneti Marelli.
Ma allora hanno ragione i “vecchi” piloti, quando mugugnano: «Ormai la moto la guidano i robot». Petrucci sorride, comprensivo: «Il mondiale di calcio vinto dall’Italia nell’82 era un altro sport rispetto a quello attuale. Ecco, per la moto è la stessa cosa. Oggi Mick Doohan entrerebbe in curva 20 km/h più lento, chiuderebbe il giro 10’’ dopo. È un altro sport. Oggi abbiamo tutti bisogno di un angelo custode».
Massimo Calandri
I top gun del mare così l’aeronautica ha stravolto il dna delle barche a vela
DA Master&Commander a Top Gun. La grande mutazione genetica della vela, che da nautica s’è trasformata in aeronautica, è ormai completa. Questo raccontano le immagini – straordinarie – della 35esima edizione dell’America’s Cup: marinai travestiti da piloti, con caschi e ricetrasmettitori, che pilotano mostruosi catamarani in volo libero a due metri d’altezza e 40 nodi (75 km all’ora) di velocità; e con la superficie cristallina della baia di Hamilton ridotta a semplice sfondo di un’azione che si svolge interamente in aria. «Per capire quanto è cambiato il nostro mestiere – ha recentemente spiegato lo skipper Francesco Bruni a Luca Bontempelli della Gazzetta – dovete considerare questo: prima timonavamo in due dimensioni, destra o sinistra. Adesso timoniamo in 3d, destra, sinistra, su e giù».
Se non bastassero le immagini e le parole, per capire a fondo il senso di questa mutazione genetica, può aiutare sapere che Oracle, il defender, il team che detiene l’America’s Cup, il più antico trofeo dello sport mondiale, ha deciso di affrontare l’intera campagna avvalendosi di un partner tecnico decisamente insolito per una faccenda di mare: Airbus, il colosso americano dell’aviazione.
Del resto, a sollevare dall’acqua e sospingere questi catamarani sono delle leggerissime ali rigide, grandi proprio come quelle degli aerei. E dotate, più o meno, dello stesso identico profilo. Nessuno meglio di Airbus, avrà pensato Larry Ellison, patron di Oracle nonché uno degli uomini più ricchi del mondo, nessuno meglio di Airbus può aiutare il team a gestire al meglio i sistemi di volo, i simulatori, gli assetti aerodinamici, insomma a mettere a punto tutto quello che serve per volare verso la vittoria.
Più o meno lo stesso ragionamento è stato fatto da New Zealand, il cui rapporto con Emirates, a quanto pare, è andato oltre quello di sponsor tradizionale. Anche se un ruolo decisivo nel determinare le sin qui sorprendenti prestazioni del catamarano kiwi sembra averlo avuto l’enorme quantità di tecnologia arrivata da Luna Rossa insieme allo skipper Max Sirena, nelle settimane successive allo «scherzetto» tirato a Patrizio Bertelli da Oracle.
La storia è nota. Gli italiani avevano cominciato a lavorare a questa edizione della Coppa con largo anticipo, e ancora nel 2015, proprio grazie a molte tecnologie sviluppate in proprio (in particolare nel campo della simulazione) erano considerati in netto vantaggio su tutta la concorrenza. A quel punto, spaventati, gli americani hanno tagliato le gambe al team, cambiando di colpo le regole. Nei giorni successivi, onorando una vecchia leale collaborazione con New Zealand, molti membri dell’equipaggio italiano hanno fatto rotta verso Auckland, con l’obbiettivo mai celato di strappare la Coppa agli americani e rimettere in gioco Luna Rossa per la 36esima edizione.
Se il contributo italiano sarà stato vincente lo scopriremo solamente il giorno dell’ultima regata: in America’s Cup è bene non sbilanciarsi mai troppo, come insegna quanto accaduto a San Francisco nel 2013. Quello che si può dire già ad oggi (anche se i neozelandesi – che da sempre spingono per una Coppa molto autarchica – non amano entrare nel dettaglio) è che è stato molto utile: sin qui New Zealand ha vinto quattro regate su quattro e conduce la serie per tre a zero. Un dominio imprevisto frutto di una progettazione (soprattutto delle derive) che, a quanto pare, ha avuto proprio nei software di simulazione made in Italy il punto di forza.
Marco Mensurati