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 2017  giugno 24 Sabato calendario

Emma Dante: «Che gioia adottare un bambino»

«Ho cinquant’anni tondi, pieni di cose private e di lavoro in dialogo tra loro, e mi sono sposata un teatrante, Carmine Maringola, e adesso portiamo con noi il nostro figlio adottivo Dimitri, cinque anni, nato a San Pietroburgo. L’impegno della scena è sempre entrato in famiglia, così come tragedie e perdite hanno trovato un posto nella mia drammaturgia. Ecco perché il mio teatro è sentimentale e magari anche cattivo come il grande padre dei fratelli Karamazov. Non ho paura della morte, me la sono fatta amica. Mi inquietano la malattia e il corpo che si trasforma». Emma Dante, autrice e regista di teatro siciliana (anche scrittrice, sceneggiatrice e artefice di film) con ascendenti su più pubblici, si guarda allo specchio. «Da piccola ero silenziosa, assorbivo e basta, poi è scattato un corto circuito per la scena. Ho imparato da mio padre, un commerciante stravagante che oggi ha 74 anni, che vedeva l’esistenza con ironia isolana, inventore di storie. Ma devo tanto anche a mia madre, purtroppo morta a 58 anni: lei mi mise sul treno per andare a Roma, all’Accademia. Dei miei due fratelli, uno è insegnante e segue il mio cammino, e uno lo persi quando aveva 24 anni in un incidente nel 1995, prima della scomparsa di mamma. Due lutti che cambiarono la mia vita. Iniziai a interrogare personaggi, a scrivere testi miei».
La creatività di Emma ha indagato misteri domestici, classici o contemporanei, senza essersi confrontata fino a poco tempo fa con una propria maternità. Ora è diverso. «Un capitolo complesso, il mio percorso genitoriale. Più di una volta ho desiderato una maternità, ma qualcosa ha impedito il realizzarsi di una cosa così naturale. Allora io e Carmine abbiamo richiesto l’adozione d’un bimbo italiano. Scontrandoci con un’attesa interminabile, un’inspiegabile mancanza di contatti, di considerazione: mai chiamati malgrado fossimo pienamente idonei a metter su famiglia con una creatura nuova. La soluzione è venuta fuori un anno fa con un bambino russo di tre anni e mezzo. Intendiamoci, non è una passeggiata, non ti entra in casa un ragazzino felice, ma uno straniero piccolissimo che ha problemi alle spalle, cui devi togliere i fantasmi delle privazioni, insieme al quale devi superare delicate prove, per toccare lentamente con mano la serenità. Ma ora è già uno scrigno-scricchiolo delle cose che noi pensiamo e gli diciamo. Capisce, e si fa capire attraverso gestualità e sguardi». E di fatto dall’anno scorso la vita di Emma e del marito è radicalmente mutata. «Viviamo in un’altra dimensione. Bellissima, umanissima. Non ho aggettivi, per restituire il senso dell’esperienza che vivo quando lavo mio figlio, lo vesto, lo informo sul mondo. Non ha paragoni, il contatto fisico che stabilisco con lui, un rapporto fatto di abbracci, una relazione pelle a pelle che prende il primo posto nelle mie responsabilità, e nei miei piaceri. Dopo aver tanto trattato il tema della morte, il mio prossimo lavoro sarà legato alla trasmissione della vita, sulla base di emozioni inspiegabili, e di un sentimento di appartenenza, anche se non ho tenuto Dimitri nel ventre. Abbiamo però un corpo unico, io e lui, perché Palermo e San Pietroburgo hanno affinità, e siamo animali istintivi che si annusano, pieni di ingenuità, di umori spontanei».
E ci sono vari altri figli, gli allievi attori che Emma educa nella sua Scuola dello Stabile di Palermo... «Il teatro però non si può insegnare, ha a che fare con la personalità, è una cosa intima, nasce dagli incontri. Sento che i giovani “rimarranno”, che è importante il loro sapere, e io divento madre di più figli, con mio figlio al primo posto. E mi sento madre, figlia, amante, sorella e nemica di mio marito, con cui sto da dieci anni». Il suo Macbeth verdiano s’è trasferito ora al Teatro Regio di Torino. Al Festival di Spoleto debutterà il suo La scortecata da “Lo cunto de li cunti” del Basile, e il Festival di Avignone ospiterà il suo Bestie di scena, nato allo Strehler di Milano. «Ad agosto comincio a scrivere con Giorgio Vasta ed Elena Stancanelli un film tratto dal mio “Le sorelle Macaluso”, con coesistenza tra vivi e morti, ricordandomi un motto di mia madre, “tinto cu mori”, chi muore ha la peggio».