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 2017  giugno 25 Domenica calendario

Uber, il piccolo indiano all’assalto delle auto

Molti anni prima che la cultura americana del politicamente corretto gli si rivoltasse contro, Travis Kalanick – il cofondatore e ceo di Uber costretto dagli azionisti dell’azienda a lasciare il timone a causa dei continui scandali – faceva parte, come molti bambini della sua epoca, dell’organizzazione cristiana Young Men’s Christian Association (Ymca). Tra i programmi messi a disposizione per i figli della middle class americana dell’era Reagan, ce n’era uno rivolto ai papà e chiamato «Indian Guides» (guide indiane): padre e figlio dovevano scegliere un nome indiano e offrire servizi alla comunità locale. Il giovane Travis optò per «Lupo che ride», mentre suo padre, ingegnere civile con una spiccata etica del lavoro e la passione per i pc, scelse «Lupo pazzo». Ancora oggi a Northridge, il sobborgo di Los Angeles dove viveva la famiglia Kalanick, alcuni ricordano quel bambino sorridente vestito da indiano, piantato per ore davanti al supermercato a vendere biglietti per le feste di raccolta fondi del quartiere. «Ero sempre il primo venditore – racconta Kalanick ad Adam Lashinsky nel libro Wild Ride —, mi piazzavo di fronte a Hughes (il supermercato ndr ) alle 14 e restavo lì fino alle 23, quando i miei genitori venivano a trascinarmi di forza a casa».
Nell’infanzia del cofondatore dell’azienda che ha rivoluzionato il settore del trasporto privato – raccontata con molti particolari nel saggio del giornalista di «Forbes», uscito da poco negli Stati Uniti – è possibile rintracciare alcuni elementi che faranno di Kalanick il capitano d’azienda più spregiudicato di una nuova economia mediata dalle app. Se è vero che è il primo a costruire un’azienda non digitale a misura di iPhone, l’atteggiamento da bullo condanna la sua creatura a diventare simbolo della cultura maschilista e amorale della Silicon Valley: furti aziendali, molestie sessuali ignorate o coperte, continue infrazioni della legge e sfruttamento di lavoratori finiscono con il connotare Uber più di qualsiasi innovazione e progresso raggiunto.
E il responsabile – per gli azionisti che lo costringono a lasciare come per i lavoratori che svuotano con le cause le casse della compagnia – è sempre lui: Travis Kalanick, un nerd della matematica nel corpo di un ex atleta, che da bambino si dilettava con baseball, corsa e trekking.
Se gli inverni erano tutti per la matematica e per i videogiochi, le estati del giovane Trevis venivano dedicate alle avventure nei parchi con il papà e i fratelli maggiori, durante le quali camminavano per ore e mangiavano solo cibo catturato con le mani: «cose da maschi» che ben si sposeranno con la cultura dei brogrammer della Silicon Valley, i programmatori delle aziende tecnologiche devoti al maschilismo e all’arroganza. Travis si nutre di quella cultura e non la abbandona mai: non lo fa nella sua stanza da ceo, dove chiude gli occhi davanti ad accuse di molestie delle poche impiegate donne di Uber; non lo fa su Twitter, per anni vetrina delle sue invettive; e neanche nelle email ai dipendenti: nel 2013, durante una trasferta di lavoro a Miami, manda una lettera ai partecipanti chiarendo le regole del viaggio: «Non fare sesso con colleghi a meno che 1) abbiate chiesto il permesso e ricevuto in cambio un entusiasta “sì voglio fare sesso con te”, 2) i due (o più) di voi che fanno sesso abbiano lo stesso grado. Questo vuol dire che Travis sarà casto in questo viaggio!».
D’altronde, nel mondo della tecnologia l’obiettivo è più importante di qualsiasi altra cosa: l’etica, il rispetto, l’educazione sono formalità da fighetti rispetto all’ambizione di rivoluzionare l’industria. È questa l’ossessione di Kalanick fin dall’infanzia, quando il tempo oltre lo sport e le equazioni è dedicato ai lavori che si ostina a fare e inventare. Prima di fondare la start-up per la condivisione di musica e film – quella Scour che ha tra i primi iscritti il fondatore di Napster, l’azienda concorrente che la sotterrerà – Kalanick vende coltelli, fa indagini telefoniche, fotocopie e gelati. «Attraverso quelle esperienze – scrive Adam Lashinsky – capisce tre cose fondamentali per diventare imprenditore: l’importanza dello storytelling, l’arte della performance e l’umiliazione del dover chiedere soldi». Proprio quest’ultima diventa un’arte in cui Travis – nonostante i modi grevi o forse proprio grazie ad essi – si rivela un numero uno. Ma fin dall’inizio l’abilità di raccogliere fondi si scontra con le conseguenze nefaste del suo agire oltre la legge in un mondo basato su regole e meccanismi pre-internet. Accade con le industrie musicali e cinematografiche, che gli chiederanno un risarcimento milionario, di fatto decretando la morte di Scour con la procedura di fallimento (il famigerato Chapter 11). E succede ancora qualche anno dopo con Uber, quando sfida le corporazioni dei tassisti, le leggi cittadine e – consentendo a un qualsiasi guidatore di diventare autista – il Dna di una professione legata alle licenze.
In mezzo c’è l’avventura imprenditoriale di Red Swoosh, che consente a Kalanick di consumare la sua prima vendetta: l’idea di un sito per condividere grossi file (una specie di proto-Dropbox) nasce per costringere le aziende responsabili del fallimento di Scour a diventare suoi clienti. Chi se non l’industria del cinema e della musica hanno bisogno di una solida tecnologia per travasare i contenuti online? «Seduto di fronte ai loro rappresentanti – ricorda Kalanick in Wild Ride – era come se volessero dirci: ma non vi avevamo fatto fuori? Ora volete venderci questa roba? Beh fateci vedere di cosa si tratta».
È la mentalità da stato di guerra permanente di un imprenditore che «parla come un surfista ma pensa come un venditore», come scrisse il «Guardian» in uno dei primi profili a lui dedicati. Kalanick, che chiama War Room la stanza conferenze dell’ufficio di Uber a Market Street a San Francisco, si sente continuamente sotto minaccia. Innanzitutto da parte del destino: il giorno in cui deve incontrare il cofondatore di Akamai, Danny Lewin, per chiudere la partnership con Red Swoosh, quello non si presenta perché è sul volo America Airlines che si schianta contro la torre nord del World Trade Center l’11 settembre 2001 (raccontano che sia stata la prima vittima poiché si alzò per urlare contro uno dei dirottatori).
Riuscirà, con grande fatica, molte umiliazioni e rinunciando alla laurea in ingegneria alla Ucla di Los Angeles, qualche anno dopo a chiudere quel patto per 18,7 milioni di dollari: e il ceo di Akamai, Paul Sagan, commenterà l’acquisizione dicendo: «Abbiamo comprato un modello culturale e un gruppo di pirati».
Travis resta un anno in azienda da impiegato, il tempo di capire che con il nuovo assetto il suo motto «crescere innanzitutto» non è più possibile. Si ritrova a 30 anni a casa dei genitori, senza un lavoro e con un discreto capitale. Depresso a causa dei due fallimenti che gli costeranno per molti anni l’etichetta di underdog del mondo della tecnologia, assiste da spettatore al tornado della crisi economico-finanziaria del 2008. È la sua occasione, il primo regalo della sorte: mentre il mercato immobiliare e l’industria finanziaria collassano, la striscia di terra che va da Palo Alto a San Jose diventa un laboratorio incredibile di progetti intorno all’idea della condivisione online. Travis si trasferisce a San Francisco. Compra casa a Castro, storico quartiere gay della città, e la trasforma in un circolo di tecnocrati e imprenditori. L’abitazione ha un nome, JamPad, un orario – aperta dalle 10 del mattino alle 2 di notte – e un profilo Twitter. «Non era un posto dove si concentrava la gente più intelligente della città per confrontarsi – ha commentato Chris Sacca, uno dei primi investitori di Uber —, piuttosto un luogo che sembrava dirti “porta la tua azienda qui e ci lavoreremo”».
È quello che succede anche con Uber: Travis prende l’intuizione del suo amico ingegnere Garrett Camp – perché non posso avere un’auto quando ne ho bisogno premendo un tasto sul mio iPhone? – e ne fa un’azienda che, pur con pochi ricavi e molte perdite, vale oggi 70 miliardi di dollari. «Di Garrett è stata l’idea, ma mia è stata l’architettura del business», ha detto Kalanick. In realtà, dell’idea originale – una compagnia di limousine con guidatori contattabili tramite una app – resterà a lungo l’immagine: lo slogan everyone’s private dinner, la cena privata a disposizione di tutti, marchia l’identità di un brand percepito in tutto il mondo come un servizio per i giovani professionisti (maschi e bianchi) metropolitani.
Eppure Travis pensa in grande fin dall’inizio: Uber non è un’azienda di trasporto ma di logistica. Come scrive «The Atlantic», l’imprenditore oggi quarantenne vede subito nel servizio il potenziale «per un’intera economia funzionale alla gratificazione immediata, resa possibile da uno smartphone». Un’ambizione esplicitata in una dichiarazione del 2011: «Se posso farti avere una macchina in cinque minuti, posso farti avere tutto». Quando gli chiedono se il suo obiettivo fosse vendere Uber a Google, risponde sgranando gli occhi: «È come se chiedessi a uno sposato felicemente come sarà la sua prossima moglie». Travis non vuole i soldi di Google, vuole essere Google. E per riuscirci è disposto a scavalcare i confini della legge, sia con sistemi molto sofisticati – come il tracciamento degli utenti; Greyball, il software per evitare i controlli delle autorità, o script che nei sondaggi comunali fa votare automaticamente per Uber i suoi iscritti —, sia con metodi iper tradizionali: dallo spionaggio industriale (come il caso Waymo in cui ha sottratto segreti aziendali a Google) all’attività massiccia di lobbying e al dumping (tenere i prezzi bassi per eliminare la concorrenza), fino alle minacce ai giornalisti critici.
Per descrivere Uber, Travis utilizza sempre cinque espressioni: legata al territorio, populista, stimolante, altamente evoluta ed elevata. Un’azienda fatta di «bit e atomi», per usare una sua formula celebre, dove la disruption assomiglia al brigantaggio aggiornato alla sharing economy. È lo stile del libertario Kalanick. Quando Adam Lashinsky gli comunica l’intenzione di scrivere un libro su Uber, l’imprenditore gli dice che se il libro non fosse risultato di suo gradimento, avrebbe assunto il miglior giornalista su piazza e gli avrebbe raccontato tutta la storia di Uber, «la vera storia». Ma è lo stesso che alla fine dell’ultima intervista gli chiede: «Tu credi che io sia uno stronzo?», per poi rispondersi: «Io non credo di esserlo, sono proprio sicuro di non esserlo!».
È molto difficile, anche per l’autore di Wild Ride, immaginare una sua reale uscita di scena dal mondo tecnologico. Sebbene i potenti investitori ritengano necessario un allontanamento per permettere a Uber «di entrare in un nuovo capitolo della sua storia», è da escludere che la mossa – dovuta più a ragioni di profitto che morali – rappresenti la fine della corsa dell’«uomo che non molla mai», come lo definiscono i colleghi. Si tratta solo di capire da dove ripartirà. E quando.
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Sono ormai ultimati i lavori di costruzione di Apple Park, la nuova sede di Apple a forma di ciambella (o disco volante). Costata cinque miliardi di dollari, conterrà una palestra da 30 mila metri quadri, servizi di tutti i tipi ma non avrà un asilo aziendale. Mentre Uber è stata colpita negli ultimi mesi da una serie di scandali sulle condizioni delle dipendenti e casi di molestie sessuali, Elon Musk (fondatore e ceo di Tesla) lotta da tempo contro ogni tentativo da parte dei sindacati americani di proteggere i diritti dei suoi dipendenti. In una lettera inviata ai lavoratori, Musk ha accusato United Auto Workers (Uaw, il principale sindacato automobilistico statunitense) di adoperarsi per conto «delle aziende giganti del settore», sottolineando l’esigenza di «essere più smart e veloci» della concorrenza. In poche parole, niente sindacati. Lo stesso avviene dalle parti di Amazon, sia nei magazzini – dove si lavora senza aria condizionata e a condizioni pessime, secondo molte testimonianze – sia ai piani alti, dove l’azienda «sta conducendo un esperimento clandestino per capire fino a quanto può spingere i colletti bianchi, ridisegnando i confini dell’accettabile», come ha notato il «New York Times» in un’inchiesta del 2015.
Ci sono poi le postille kafkiane ai contratti di lavoro, come quelle sottoposte agli assunti di NowThis, azienda specializzata in contenuti virali nei social media, ai cui dipendenti è vietato andare a lavorare per «la concorrenza» per due anni dopo la rescissione del contratto. Tra le testate incluse nella lista: Mic, Vox, BuzzFeed, Vice, Cnn, Complex e Condé Nast. Nel nome della disruption – lo sconvolgimento dello status quo su cui si basa l’innovazione – tutto può essere stravolto o cancellato. Compresi i diritti dei dipendenti.
Non parliamo delle famigerate reti anti-suicidio installate a suo tempo dalla Foxconn in Cina, ma di colletti bianchi che lavorano per giganti che si concedono sedi sempre più grandi dalle quali è sempre più difficile uscire.