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 2017  giugno 25 Domenica calendario

Teatro vecchio togliti gli occhiali. A 150 anni dalla nascita di Luigi Pirandello, il discorso pronunciato nel ’34 all’inaugurazione della nuova sede della Stampa

Sarà forse nota anche a voi l’avventura di quel povero campagnuolo, il quale, avendo sentito dire al suo parroco che non poteva leggere perché aveva lasciato a casa gli occhiali, alzò l’ingegno e concepì la peregrina idea che il saper leggere dipendesse dall’aver un pajo d’occhiali; per cui se ne venne in città ed entrato in una bottega d’occhialajo domandò:
– Occhiali per leggere!
Ma poiché nessun pajo d’occhiali riusciva a far leggere il pover’uomo, l’occhialajo alla fine spazientito, dopo aver buttato giù mezza bottega, sbuffò:
– Ma insomma, sapete leggere?
Al che, meravigliato, il campagnuolo:
– Oh, bella! E se sapessi leggere, sarei venuto da voi?
Orbene, di questa ingenua maraviglia del pover’uomo di campagna dovrebbero avere il coraggio e la franchezza tutti coloro che, non avendo né un proprio pensiero né un proprio sentimento da esprimere, credono che per comporre una commedia, un dramma o magari una tragedia, basti semplicemente mettersi a scrivere a modo d’un altro.
Alla domanda: – Ma, insomma, avete qualche cosa di proprio vostro da dirci? – dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di rispondere: – Oh, bella! E se avessimo qualcosa di proprio nostro da dire, comporremmo forse così, a modo d’un altro?
Ma comprendo che questo sarebbe veramente un chieder troppo.
Basterebbe forse che questi tali non s’indispettissero tanto allorché qualcuno fa loro notare pacatamente che nessuno vieta, è vero, l’esercizio di fare e rifare un teatro già fatto, ma che questo esercizio significa che non si hanno occhi propri, bensì un pajo d’occhiali tolti in prestito altrui.
È stato detto e ripetuto che la facoltà imitativa o decorativa nella natura dell’ingegno latino in generale è superiore alla inventiva o creativa, e che tutta quanta la storia del nostro teatro, e in genere, della nostra letteratura, non è altro in fondo che un perpetuo avvicendarsi di maniere imitate; e che, insomma, cercando in essa si trovano certo moltissimi occhiali e pochissimi occhi, i quali tuttavia non sdegnarono spesso, anzi ebbero in pregio di munirsi d’antiche lenti classiche per vedere a modo di Plauto o di Terenzio o di Seneca, che a loro volta avevano veduto a modo dei tragici greci e di Menandro e della commedia di mezzo ateniese. Ma questi – diciamo cosi – ausili visivi erano almeno fabbricati in casa nostra dalla Retorica che tenne sempre da noi bottega d’occhiali; e questi occhiali passarono da un naso all’altro per generazioni e generazioni di nasi, finché all’improvviso, con l’insorgere del romanticismo, non si levò il grido: – Signori, proviamoci un po’ a guardare con gli occhi nostri! – Si tentò; ma, ahimè, si riuscì a vedere ben poco. E cominciò allora l’importazione degli occhiali stranieri.
Storia vecchia. E non ne avrei fatto parola, se veramente un po’ da per tutto non si fosse arrivati a tal punto che, per entrare nel favore del pubblico, non giovi tanto avere un pajo d’occhi proprii, quanto esser forniti d’un pajo di occhiali altrui, i quali faccian vedere uomini e vita d’una certa maniera e di un dato colore, cioè come vuole la moda o come il gusto corrente del pubblico comanda. E guaj a chi sdegni o ricusi comunque d’inforcarseli, a chi s’ostini a voler guardare uomini e vita a suo modo: il suo vedere, se semplice, sarà detto nudo; se sincero, volgare; se intimo e acuto, oscuro e paradossale; e la naturale espressione di questo mondo nuovo apparrà sempre piena di grandissimi difetti.
Riparlerò di questi difetti. Il più grosso e il più notato, è stato sempre – in ogni tempo – quello dello «scriver male». È una pena riconoscerlo, ma tutte le visioni originali della vita sono sempre espresse male. Cosi almeno furono sempre giudicate al loro primo apparire, segnatamente da quella peste della società che è la così detta gente colta e perbene. (…)
Signori, per il colto Quattrocento Dante scriveva male, la Divina Commedia era scritta male, e non soltanto perché non composta in latino ma in volgare, ma proprio scritta male anche in quello stesso volgare; e Machiavelli? Scrive Il Principe e deve con vergogna scusarsi e confessare di non esser colto abbastanza di lettere per scriverlo meglio. E ai fanatici del fioritissimo Tasso non sembrava forse scritto male anche L’Orlando furioso dell’Ariosto? E scritta non solo male, ma pessimamente apparve La Scienza Nuova del Vico, a cui avvenne il caso ben curioso di mettersi a scrivere in tutt’altro modo, da parere un altro, quando volle piacere a tutti coloro che erano soliti leggere con gli occhiali di quella Retorica, che egli stesso poi abitualmente professava.
Per concIudere questo discorso d’cchi e d’occhiali, il bello tuttavia è che quelli che han gli occhiali (e tutta Ia gente coIta li ha o almeno si presuppone che debba averli, e tanto più, quanto più finga di non avvedersene) predicano che in arte bisogna assolutamente aver occhi proprii; e intanto danno addosso a chi, bene o male, se ne serve; perché – intendiamoci! – occhi proprii sì, ma debbono essere e vedere in tutto e per tutto come gli occhi loro, che viceversa sono occhiali, tanto che se cascano, felice notte. (…)