la Repubblica, 26 giugno 2017
Droni e armi hi tech. Alleanza Trump-Modi per sfidare la Cina
NEW YORK È l’incontro tra due campioni mondiali del nazional-populismo, oltre che dei social media: più di 30 milioni di follower ciascuno su Twitter. Stasera Donald Trump offre la sua prima cena di Stato alla Casa Bianca a Narendra Modi, il premier indiano. È l’occasione per rilanciare l’alleanza strategica fra l’America e l’India, uno dei rari casi di continuità con la politica estera di Barack Obama (ma anche di George W. Bush). L’interesse comune è chiaro: contenere l’espansionismo della Cina. Per questo nell’incontro di oggi è previsto un versante militare, con la fornitura di droni made in Usa, la prima ad un paese che non fa parte della Nato. New Delhi è interessata anche ad altre tecnologie belliche, inclusa la fabbricazione di caccia F-16 della Lockheed Martin sul suo territorio.
Il confronto tra il dragone cinese e l’elefante indiano è inevitabile. I fautori di una relazione privilegiata con New Delhi sottolineano che l’India ha superato la Cina per velocità di crescita (7% contro il 6%) e il futuro le sorride grazie alla giovane età della sua popolazione: un quarto di tutti coloro che entreranno nella forza lavoro mondiale da qui al 2025 saranno indiani, mentre la Cina soffre un veloce invecchiamento demografico. Certo per adesso l’economia indiana resta più piccola e il suo interscambio con gli Stati Uniti (115 miliardi annui) è molto più modesto; ma lo è anche il suo attivo commerciale, che a quota 30 miliardi non rappresenta un macro-squilibrio eclatante come quello cinese (oltre dieci volte superiore). Se si eccettua la sovrapproduzione di acciaio da parte dei colossi Mittal e Tata, e le delocalizzazioni di posti di lavoro nel software verso Bangalore, non ci sono grandi ragioni di conflittualità economica tra Washington e Delhi. L’India non ha un modello di sviluppo trainato dalle esportazioni, la sua è un’economia più introvertita; questo provoca lamentele delle multinazionali americane per il protezionismo e gli ostacoli agli investimenti, però rende meno poderosa la competizione indiana sugli equilibri economici globali. Mentre è evidente la convergenza d’interessi tra i due paesi nell’affrontare l’ascesa cinese.
Modi può vantarsi di avere preceduto Trump: con il successo di questo leader vicino al fondamentalismo induista, il partito Bjp è stato un precursore dei nazional-populismi a livello mondiale. Ad aiutare Modi nei suoi rapporti con gli Stati Uniti contribuisce la potentissima diaspora indiana, ben rappresentata soprattutto ai vertici del capitalismo digitale: da Sundar Pichai chief executive di Google a Satya Nadella che dirige Microsoft. Il forte insediamento degli indiani nei mestieri delle tecnologie avanzate è sottolineato dal summit che Modi terrà a Washington con tutti i capi delle aziende hi-tech americane, tra i quali Tim Cook di Apple e Jeff Bezos di Amazon.
Trump è riuscito però a disseminare alcune mine vaganti prima di questo incontro. Su due temi cruciali, immigrazione e ambiente, ha detto cose sgradite agli indiani. Ha lanciato un attacco ai visti H1-B, i più usati proprio dalle aziende di software indiane per “importare” nelle loro filiali californiane giovani informatici laureati nei Politecnici di Mumbai, Thane, Muktsar o Bangalore. Per adesso Trump non ha fatto nessun gesto concreto per ridurre l’uso di quei visti, ma le multinazionali indiane restano in allarme. (E sottolineano che l’America ha i suoi benefici: gli studenti indiani che affluiscono nei suoi college portano 5 miliardi l’anno e creano 64.000 posti di lavoro).
L’altro attacco di Trump all’India è stato sugli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico. Nell’annunciare che gli Stati Uniti si ritireranno da quegli accordi, il presidente ha accusato l’intesa di Parigi di lasciare libertà all’India per continuare ad aumentare le sue emissioni di CO2 e aprire nuove centrali elettriche a carbone. Trump ha anche detto che l’India pretende centinaia di miliardi di aiuti per rispettare gli impegni. Il governo Modi lo ha smentito su tutti e due i punti, in particolare ha precisato che non verranno costruite nuove centrali a carbone.