Affari&Finanza, 26 giugno 2017
Momo: «All’inizio era un volante facciamo più belle le cose normali». Il prototipo fu realizzato da un fabbro e rivestito in pelle nel retrobottega di una parrucchiera di Verona
La sede di Momodesign è al 45 di via Meda, Milano. Qualche anno fa ci abitavano Eros Ramazzotti e Michelle Hunziker, ma prima ancora le grandi stanze coi soffitti a volta ospitavano le sale di registrazione della Fonit Cetra. Qui, nel 1958, Domenico Modugno ha inciso Volare: e non può che essere il segno di un destino comune. Di una storia che continua: una storia metamorfica, in continua evoluzione, antica e futurista. Di genio, creatività, eleganza. Prima quei volanti belli e impossibili, poi i cerchi in lega, gli accessori di lusso per auto. I caschi. L’uso di linee e materiali che nessuno, mai: gli orologi, gli occhiali, l’abbigliamento, i profumi. Le biciclette, gli aspirapolvere. Una storia italiana, che continua a fare il giro di mondo. Volare. «È cominciato tutto quasi 60 anni fa, quando ce lo siamo fatto tagliare da un fabbro dietro la Stazione Centrale: un piccolo volante tondo in alluminio, l’abbiamo avvolto con nastro adesivo perché non sapevamo come fare l’imbottitura. Poi nel retrobottega di una parrucchiera di Verona – faceva anche la sarta, e il marito commerciava pellami di pregio – lo hanno ricucito in pelle nera. Il giorno dopo l’abbiamo proposto a un negozio di ricambi auto milanese. Piaceva a tutti, non lo comparava nessuno». Startup, direbbero oggi. Allora Marco Cattaneo studiava Scienze Politiche a Pavia con Gianpiero Moretti, che però preferiva correre in pista con le automobili. Alla fine si laurearono entrambi. Il primo si mise a lavorare nel marketing, l’altro fondò la Momo (che sta per Moretti-Monza) e continuò a proporre lo strano, piccolo volante tondo. Fino a quando se ne innamorò John Surtees, che con quello nel 1964 vinse il mondiale di Formula Uno guidando una Ferrari. «Io e Gianpiero ci ritrovammo per caso in un ristorante, anni dopo», racconta Cattaneo. «Stavo per andare a lavorare come direttore alla Ferrero, lui insisteva per rimetterci insieme. Era un creativo, un fuoriclasse: ma non con i conti. L’azienda era sull’orlo del crac, però dissi di sì. Il destino. Solo 7 mesi più tardi eravamo a +70%». Gli altri capitoli della storia sono appesi ai muri dell’ufficio di Catteneo, presidente di Momodesign: foto di lui e Moretti (scomparso nel 2012) con Paul Newman a Daytona. Con Steve McQueen, Gene Hackman. Gilles Villeneuve, Niki Lauda. C’è il principe di Dubai con un paio di occhiali da sole Momo. Marchionne, Della Valle e un giovanissimo Berlusconi con un orologio inconfondibile. «Siamo arrivati a vendere 800.000 volanti. A produrre le prime ruote in magnesio, che Bernie Ecclestone all’inizio diceva fossero troppo pericolose. Continuavano a venirci delle idee, e allora abbiamo capito che si poteva fare altro. Tutto». Nel 1981 nasce Momodesign. L’orologio, poi esposto al Moma di New York, fu in realtà copiato da un’idea del danese Jasper Jensen (che fu designer della Bang & Olufsen). «Vidi un prototipo al polso di un conoscente appena arrivato dagli Usa. Lo feci subito fotografare, poi lavorammo applicando quei principi che ci hanno sempre ispirato: fare qualcosa di diverso dagli altri, però con un valore aggiunto. Creatività e semplicità, tecnologia e pulizia insieme». Nell’ufficio c’è anche la suggestiva Ferrari 333 Sp che trionfò alla 24 ore di Daytona, nata da una collaborazione con Piero Ferrari (figlio di Enzo), con cui Moretti nel 1994 – insieme ad Eliseo Salazar, per la scuderia Momo Corse – vinse a Indianapolis, Watkins Glen, Lime Rock. Un incredibile catalogo in giapponese con inserti in pelle: sembra arrivato dallo spazio, invece ha 40 anni e allora fece innamorare il presidente della Toyota. C’è una stupefacente bici con i cerchi in legno: «Li trovammo da uno che li produceva per i calessi (sulky) dell’ippica». Oggetti d’arte, senza tempo. «Gli americani hanno poca creatività, ma a livello di produzione non li batte nessuno». Nel ’93 Momo passa a Breed Technologies, colosso industriale americano quotato al Nasdaq poi acquisito da Carlyle Management Group, fondo di investimento che nel 2003 la fonde con le altre aziende del settore automotive già di sua proprietà e crea la Key Safety Systems (oggi vertici cinesi). «Per 5 anni ho fatto l’amministratore delegato. Noi credevamo di essere i più intelligenti del pianeta, ma quanto ad organizzazione del lavoro gli Usa sono imbattibili. La cosa divertente è che mi confessarono di aver imparato dalla General Motors, ma prima ancora dalla vecchia Necchi di Pavia». Quando la società viene ceduta agli americani, ha un fatturato da 140 miliardi di lire. «Nel ’98 gli ho chiesto se mi vendevano la Momodesign: loro puntavano risparmiare un po’, hanno accettato a patto che non ci occupassimo più di automobili. E infatti, anche quando abbiamo collaborato con Lancia ho dovuto chiedere una autorizzazione». Il 1998 è un’altra stagione da ricordare. «I caschi Momo: mi era venuta l’ispirazione osservando in America che ci portavano gli occhialoni sopra, e dissi al designer – un danese – di farmi qualcosa così, con quella linea. ‘Più sono vecchi e più sono rincoglioniti’, pensò: glielo lessi nello sguardo». In quel periodo i caschi diventano obbligatori per i motociclisti. Il primo anno, Momo vende 3.000 esemplari. Il secondo, 30.000. Boom. Il casco da Top Gun, di Tom Cruise e dei piloti dei Mig russi: naturalmente c’è anche quello, nello studio del presidente. Oggi ne circola più di un milione, sono prodotti della Kss che solo per questa licenza fattura 39 miliardi. «Noi viviamo di royalties», spiega Catteneo. «Però la licenza è come l’adozione di un bambino. Nel senso che i genitori biologici sono sempre presenti». Il bilancio di Momo Design si aggira intorno ai 25 milioni. «Le occasioni per ingrassare il bilancio a scapito del livello del marchio sarebbero tantissime. Ma non lo faremo mai». Mostra orgoglioso il casco in graphene sviluppato insieme all’Iit, l’Istituto di tecnologia di Genova. «Cento volte più forte dell’acciaio, dieci più duro del diamante e abbatte il calore del 40%: il graphene è un materiale che cambierà il mondo. Non so quanto ci vorrà (sono passati 18 anni prima che l’alluminio venisse usato per le ali degli aerei), ma so che noi giochiamo d’anticipo. Sempre». Col passare del tempo si sono sempre più staccati dal settore racing sportivo per puntare al puro design. «Unito a stile e funzionalità. In questo settore non abbiamo competitor. E le grandi aziende bussano da noi per una risposta: come Hoover, che con gli aspirapolvere voleva recuperare una identità e gliela abbiamo data, vincendo anche dei premi». La curiosità, l’ispirazione che arriva dal vivere quotidiano in città. In via Meda lavorano 6 designer: «Vengono tutti dal Politecnico, con cui abbiamo un accordo. I primi anni erano giapponesi, californiani, scandinavi. Però gli italiani, è un’altra cosa». Gli italiani sanno volare.