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 2017  giugno 26 Lunedì calendario

Cinquant’anni senza Carnera. Il ricordo della figlia: «Il mio papà gigante innamorato dell’Italia»

Il Gigante buono si addormentò cinquant’anni fa, il 29 giugno del 1967, a Sequals, ma la memoria delle sue imprese non si è mai persa. Perché quello di Primo Carnera è un mito che resiste al mutare delle stagioni, al declino della boxe, allo sbiadirsi dei suoi protagonisti. Campione del mondo dei pesi massimi fra il 1933 e il 1934, incorniciato nella sua sagoma immensa per l’epoca (1 metro e 98, 125 chili), Carnera ha rappresentato l’icona di un’Italia che come lui, ma senza la sua forza, ambiva ad essere extralarge, invincibile ed esportabile. Il regime fascista volle mettere il cappello sulla sua vicenda, ma Carnera nel dopoguerra divenne cittadino americano e fu adottato da
Hollywood, talmente popolare da trasformarsi persino in fumetto. «In Italia e negli Usa ancora oggi quando sentono il mio cognome subito mi chiedono se sono parente», racconta Giovanna Carnera, la figlia del campione che dopo essersi laureata in psicologia ed aver abitato a lungo a Tampa, in Florida, da qualche anno è tornata a Sequals. «E lo fanno con una passione che continua a commuovermi. Non molti sportivi sono ricordati così a lungo».
Che padre era?
«Molto affettuoso. Quando doveva partire per noi era una tragedia, quando tornava in famiglia si accendeva la luce. Non parlava tanto, ma era saggio, diceva cose che ti colpivano al cuore. La lezione più importante che mi ha trasmesso: mantenere sempre la dignità. E non dimenticare mai che sono italiana. Era orgogliosissimo di quella che chiamava la sua Italia».
Il fascismo volle farne un eroe del regime.
«Ma papà non ha mai avuto un’appartenenza politica. Conosceva e aveva a cuore italiani, tedeschi, francesi, americani. Per lui erano semplicemente essere umani».
In famiglia si parlava di boxe?
«Poco, perché per lui era una storia a parte. Ne era appassionato, ma a mio fratello Umberto, che poi diventò medico, ripeteva: “guai a te se fai il pugile, è una vita troppo dura”. La tragedia di Ernie Schaaf (il pugile che morì 4 giorni dopo essere stato messo ko da Carnera nel 1933, ndr) fu la vicenda che lo segnò di più. Mi raccontava che non usava mai tutta la sua forza, per paura di fare troppo male, e che sul ring da allora combatteva sempre contro due avversari: quello reale e l’ombra di Schaaf».
Chi erano i colleghi che stimava di più?
«Ricordo una cena nella nostra casa di Los Angeles con Max Baer, Joe Louis e Max Schmeling: ridevano e scherzavano come ragazzi. Fuori dal ring fra di loro c’era amicizia. Mia madre era un’ottima cuoca e alla fine i tre le chiesero: signora, quando possiamo tornare?».
In Nino Benvenuti aveva trovato un erede.
«Benvenuti è una grande persona, per mio padre era un fratello, forse un figlio. Fra noi c’è ancora grande amicizia».
La boxe di oggi piacerebbe a suo padre?
«Credo che ne sarebbe disilluso. Lui, Baer, Louis davano grande dignità alla boxe. Oggi mi pare che sia diventata più uno show che uno sport».
Ha visto «La Montagna che cammina», il film su suo padre diretto da Renzo Martinelli?
«Bel film, bravi attori, io ho avuto anche una piccola parte. Ma credo sia rimasta in ombra la grande umanità di mio padre. Quando era negli Usa aiutava gli immigrati a trovare un posto, ad ambientarsi. Un giorno a New York sotto Natale vide una bambina che piangeva perché la bambola che desiderava costava troppo: entrò nel negozio e gliela comprò. Anni fa in Italia una signora, saputo che ero la figlia, mi raccontò che aveva donato migliaia di lire per mantenere aperto l’orfanotrofio dove lei lavorava. Era un’anima buona e dolce. E non parlava mai del bene che faceva».
L’ha mai visto arrabbiato?
«Con me e Umberto solo quando mancavamo di rispetto a nostra madre, che era severa ma giusta. Fra di loro c’era un legame incredibile».
Cosa lo interessava oltre alla boxe?
«L’opera. Se sentiva un brano alla radio immediatamente riconosceva il libretto e gli interpreti. Le sue preferite erano Aida, la Ragazza del West e la Bohème. E poi amava giocare a bocce».
Ha fatto anche l’attore.
«Gli piaceva molto. Fu il periodo più bello, perché restava a casa con noi e non c’era l’incubo di fare le valigie ogni due settimane».
Si è mai sentito tradito o dimenticato dall’Italia?
«No, e del resto non ne aveva motivo. È stato amatissimo sino alla fine. Rifuggiva dall’adulazione, ma se gli dimostravano affetto, anche al suo locale preferito, il Bottegon, gli faceva un piacere immenso. Se dici Carnera ancora oggi tutti pensano a Sequals. Non ha mai dimenticato la sua gente. E anch’io sono voluta tornare qui».