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 2017  giugno 26 Lunedì calendario

Fedifrago, fascio, irrisolto. Vita inutilmente appassionata di Arturo Toscanini

Il centocinquantenario della nascita di Arturo Toscanini (Parma il 25 marzo del 1867) è passato in sordina. Qualche celebrazione nella città natale, un concerto alla Scala, nient’altro di rilevante. 
Assai benvenuta allora la ripubblicazione, in una nuova edizione accresciuta, delle Lettere (il Saggiatore, 597 pagg., 40 euro) che raccontano una vita eccezionale sul piano politico, artistico, erotico. Ebbe una sola moglie, Carla De Martini, la quale sopportò stoicamente i suoi continui tradimenti. La tecnica seduttiva di Toscanini era più rude dello stile, improntato alla massima economia del gesto, che esibiva sul podio, ma non meno efficace: “gettava le reti”, riassunse il nipote Walfredo. Distingueva nettamente tra lenzuola e politica: lui antifascista ed “ebreo onorario” per essersi rifiutato di dirigere nella Germania nazista, amò appassionatamente Ada Mainardi Colleoni, ex amante di un notabile fascista e accanita antisemita, a sua volta coniugata col celebre violoncellista Enrico Mainardi, che d’altronde di Toscanini era amico e si faceva gli adulteri suoi. Quando Ada e Arturo si innamorarono, lui aveva sessantasei anni, lei trent’anni di meno. Le lettere a Ada ricordano le pagine più torride dell’Amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence, il quale credeva in una sua «religione del sangue», e anche Toscanini «usava il proprio sangue per scrivere un paragrafo o due di queste lettere», ci informa il pudibondo curatore Harvey Sachs. Di più: inviava ad Ada suoi fazzoletti immacolati, riavendoli indietro tinti del sangue mestruale di lei, poi li teneva in tasca durante i concerti come amuleti, e riferiva ad Ada del grande successo riscosso. Lei, che il quasi settantenne maestro rimprovera per la sua «freddezza», lo faceva impazzire per il vezzo di esclamare al momento dell’orgasmo «dammi, dammi!», incitazione che ricorre come un tema wagneriano nelle loro lettere. Il carteggio tocca anche la politica: nel novembre del 1919 Toscanini si candida senza venire eletto (nemmeno Mussolini lo fu) nelle liste del partito fascista, allora nella sua fase sansepolcrista filobolscevica. Del fascismo maturo, Toscanini fu sempre indomito oppositore, ma nulla di più falso dell’immagine di un Toscanini “pacifista”: in un telegramma del ’21 scrive al «Comandante» D’Annunzio, asserragliato a Fiume, dopo aver diretto lì un concerto di sostegno agli Arditi: «Per l’Italia bella, per l’Italia grande, per il suo più nobile figlio, per i suoi valorosi compagni, eja, eja, eja, alalà!». Un paio di lettere riferiscono del famigerato incidente di Bologna del ’31, in cui Toscanini, recandosi a un concerto, essendosi rifiutato di suonare prima del programma gli inni nazionali (allora erano la Marcia Reale, e Giovinezza) venne aggredito con la famiglia da un gruppo di fascisti e «ingiuriato e colpito replicatamente al viso», come scrive in una sdegnata nota mai inviata allo stesso Mussolini. Chi fosse stato l’autore dei ceffoni nessuno sa con precisione: Leo Longanesi se ne vantava, altri lo sbugiardano, ipotizzando che gli aggressori fossero teppaglia senza rapporti col regime, attirati dall’ idea di bastonare il famoso e ricco maestro, che da direttore stabile della New York Philharmonic guadagnava, per quindici settimane di lavoro (massacrante) l’equivalente odierno di due milioni di dollari netti. Nonostante la gloria, dalle lettere emerge la figura di un artista insoddisfatto e tormentato, prigioniero di un matrimonio senz’amore e deluso da amanti capricciose e troppo giovani. La sua inesausta passionalità troverà sfogo nella musica, nell’ Eroica di Beethoven che pulsa come il cuore di Achille in battaglia, nel suo Verdi tutto attraversato dalla melodia e dal canto, nella asciutta commozione che eleva pagine minori come le Variazioni Enigma di Elgar. Dai dischi ancora ci elettrizza la fibra del tiranno settantenne che scriveva lettere d’adulterio col sangue.