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 2017  giugno 26 Lunedì calendario

Neri Parenti: «Tramonti e cinismo. Roma mi ha stregato»

Mio padre, Magnifico Rettore dell’Università di Firenze e accademico dei Lincei, era un economista di chiara fama. Si era specializzato in Statistica, aveva lavorato all’Unesco, e non pago, oltre a essere stato inventore con Filiberto Guala del servizio opinioni della Rai, il padre dell’Auditel, tra la carica da presidente di INA-casa e quella omologa del credito sportivo, aveva persino contribuito a redigere il Piano Marshall. Aveva così tanti impegni e lo vedevamo così poco, che in coincidenza con la nascita dei cuccioli dei nostri cani – sarà accaduto almeno un paio di volte – davamo loro i nomi dei ministri del paese in cui si trovava a lavorare il nostro babbo in quel momento.
IL TIROCINIO
Il mondo del cinema, come è ovvio, lo lasciava del tutto indifferente. A me invece quello stagno piaceva perché nuotare tra le suggestioni dei film era da sempre una mia passione. Pensavo sarebbe rimasta tale a lungo e mi ero dato al giornalismo. All’epoca, parliamo del 1969, nei giornali esisteva ancora il praticantato. Fu indetto un concorso per gli studenti di tre regioni: Emilia, Toscana e Lazio. In quella riffa tra post-liceali arrivai terzo: i primi due classificati, uno di Bologna e l’altro di Firenze, scelsero per loro le ovvie sede d’elezione. Così sul piatto restò Roma e mi ritrovai catapultato alla Rai. All’orizzonte, sei mesi di tirocinio. Appena arrivato capii che sarebbe stata durissima. Mi ignoravano, Non mi facevano fare niente. Chiedevo ogni giorno come potessi rendermi utile fino a quando, una mattina in cui trovai meno resistenze, mi venne assegnato finalmente un incarico. Avrei dovuto recarmi sul set di Addio fratello crudele, una delle prime produzioni Rai per la regia di Peppino Patroni Griffi, al fine di prendere nota – non si sa a vantaggio di chi – una sorta di diario di bordo.
Mi presentai vestito alla fiorentina, di tutto punto, con giacca e cravatta e dopo una prima fase di studio, andai dritto da quello che aveva le sembianze del capobanda, Giorgio Adriani, il direttore di produzione. All’epoca, diversamente da oggi, i direttori di produzione erano abbastanza primari. Lontanissimi dall’essere colti, davano ordini per lo più in romanesco e avevano l’attitudine severa di chi a chiedere permesso o per favore proprio non pensava. Educatissimo, domandai ad Adriani cosa dovessi fare per non ostacolare il lavoro e lui, lapidario, mi ammannì tre regole simili a tavole della legge: «Nun toccà i cavi elettrici, nun t’avvicinà alla macchina da presa e soprattutto, nun rompe er cazzo».
Eseguii docilmente, fino a quando, del tutto inaspettatamente, Adriani ebbe bisogno del mio aiuto. Charlotte Rampling, l’attrice principale, aveva dato di matto. Proteste, urla, porte sbattute. Adriani disse «che cazzo vvò questa? Nun la capisco mica» e io che avevo una madre dai natali inglesi intervenni nella discussione: «La signora Rampling lamenta il malfunzionamento dell’acqua nella sua roulotte e dice che non può fare la doccia». Adriani si voltò verso di me e sembrò che all’improvviso avesse visto dio: «Tu l’ha capita? L’hai capita davero davero? Parli stragnero? Allora nun te spostà più e stamme vicino tutti i minuti della vita tua».
LE FRASI URLATE
Il mio status cambiò e fu proprio Adriani a chiamarmi ancora per L’uomo della Mancha con Peter O’ Toole e Sophia Loren. Passavo di set in set e accantonati gli studi, ormai mi ero trasferito a Roma. I romani mi stavano simpatici. Erano spiritosi. Un po’ c’entrava il clima. Da Procacci a Doney, non c’era un bar a Firenze, pur bello, che avesse i tavolini all’aperto. A Roma si stava sempre fuori. Ci si urlava le frasi da una strada all’altra. C’era nell’aria un’ironia dissacrante e disillusa che mi rendeva allegro. Mio padre, prima che facessi la valigia, era stato fin troppo chiaro. «Vai a Roma? Non finisci gli studi? Ti tolgo la macchina e non ti do una lira, se vuoi però puoi dormire in via Tarvisio». Dove lui aveva una casa in cui metteva piede ogni tanto e che fu il mio primo rifugio romano. Quando papà passava a trovarmi andavamo nel quartiere, il quartiere Trieste, a mangiare in trattoria, dal Triste, un uomo mesto che gestiva un’osteria e che avevamo spietatamente soprannominato così o a prendere i cornetti più buoni di Roma, venduti accanto al Liceo Giulio Cesare, in Corso Trieste, un genere culinario che su di me che non amavo i dolci esercitava una relativa attrazione.
Tutt’altra storia il cinema per il quale, senza macchina, raggiungevo i set in motorino anche di notte. Ai livelli più bassi il mestiere sapeva mostrare il volto della fatica. Papà mi vide alzarmi più volte alle tre di notte in pieno inverno per raggiungere il set di D’amore si muore di Carlo Carunchio, a Manziana, e si impressionò: «Ti restituisco la macchina perché ho visto in un vero trasporto e ho deciso di sostenerti, però laureati». Lo accontentai. Era fatta. Rimanevo a Roma che iniziavo a scoprire aprendomi a luoghi fino ad allora nascosti alla vista. Trastevere, per dire, nelle lunghe e rare passeggiate che facevo con mia madre quand’era in visita da mio padre, non l’avevo mai vista.
LA FORTUNA
Passò ancora un po’ di tempo e venni preso da Festa Campanile sotto la sua ala protettrice. Girava Quando le donne avevano la coda e tra noi si instaurò un’immediata simpatia. Lo andavo a prendere in automobile e nel traffico parlavamo per ore. Facevo per lui, che preparava Il ladrone, lunghe ricerche alla Biblioteca Nazionale e ogni tanto lo accompagnavo a visionare i giornalieri restando fuori dalla porta. Era un film in cui il trucco degli attori aveva un peso preponderante e il povero Pasqualino usciva dalle sedute distrutto e incupito: «Non va mai bene niente».
Un giorno presi il coraggio a due mani e chiesi: «Posso entrare anch’io in proiezione?». Me lo concedette. E per miracolo, quella volta andò tutto benissimo: «Non sarà che porti culo tu?» mi disse e io pronto: «Lo spero». Diventammo inseparabili e iniziai a camminare in breve con le mie gambe frequentando per qualche tempo l’ambiente intellettuale del cinema romano che sembrava tratto direttamente da una scena de La terrazza di Scola.
Molti anni dopo, Roma mi sembra la stessa di ieri. Il casino, i tramonti, il cinismo. La osservo da un punto di vista privilegiato, ma l’incanto è rimasto identico. Nella buona e nella cattiva sorte, in ciò che puoi spiegarti e nelle pieghe imperscrutabili di una città che invece, certe volte, non spiega nulla né delle fortune inattese, né delle sfighe. Il mio primo film, una porcheria, è del 1978. L’idea di John travolto da un insolito destino, una parodia de La febbre del sabato sera, fu di Enrico Lucherini. Al Festival di Venezia incontrò Giuseppe Spezia, un cameriere che era il sosia di John Travolta e propose il copione a Turi Vasile e a Goffredo Lombardo. Scrissi il trattamento e scoprii che il set era diventato il riparo di tutti i raccomandati d’Italia. 
L’esito fu un disastro. Il film uscì lo stesso giorno in cui era prevista la prima di Figli delle stelle, il secondo film di Carlo Vanzina. Ci incontrammo fuori dalle rispettive sale, io e Carlo, in viale Giulio Cesare, a Roma, alle 3 del pomeriggio. Io a guardare l’ingresso del mio, lui del suo. Non entrava nessuno. Verso la sala che proiettava John travolto avanzarono 15 giapponesi. Pagarono il biglietto del mio film. Carlo, ma tu te lo spieghi?. Non se lo spiegava. Eravamo a Roma, nel luogo dell’intangibile e dei misteri buffi e grazie a dio, siamo ancora qui.