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 2017  giugno 26 Lunedì calendario

Depeche Mode, la rivoluzione parte dai Beatles

Partire dai Beatles e chiudere con David Bowie: citazioni non occasionali. Che i Depeche Mode ci sappiano fare e abbiano fiuto non è una novità. Non sarebbero sulla breccia da 37 anni, non riuscirebbero a riempire ancora gli stadi come stanno facendo in questo nuovo tour, non avrebbero la baldanza e la civetteria con cui si presentano ancora con questo Global Spirit Tour che ieri sera ha fatto il suo debutto italiano all’Olimpico, per poi replicare domani a Milano e giovedì a Bologna, salvo già prenotare tre altre date invernali (il 9 dicembre a Torino, il 13 a Bologna, il 27 gennaio a Milano. Una prima dell’estate romana allo stadio (seguiranno Tiziano Ferro e gli U2, entrambi con doppi appuntamenti) accompagnata da un superpieno (53 mila spettatori) a dispetto dei timori di ordine pubblico e della serie di corvé a cui (tutto sommato per fortuna) ci si deve sottoporre per arrivare alla meta: quattro livelli di controlli, lunghe file, assembramenti (col timore che il vicino non sia quello giusto).
VIA ALLA NOTTEIl via alla notte dei Depeche lo danno le voci dei Beatles che invadono lo stadio con la loro Revolution mentre il palco svela i suoi megaschermi. E la scelta beatlesiana non può non essere un richiamo al pezzo simbolo del nuovo disco, Where’s the Revolution. Nuova citazione con richiamo alla fine, fra i bis, con l’evocazione di Heroes e David Bowie in una versione incantatoria, che Gahan accarezza, quasi un’omelia dedicata al Duca bianco, ispiratore iniziale della band. In mezzo ci sono loro, i Depeche, con il loro successo a lunga durata che vive e si fonda sull’alchimia, magari un po’ ambigua, che combina il sudore emotivo che ogni rock band deve produrre agli studiati effetti elettronici. Suoni e immagini (firmate da un asso come Anton Corbjin, splendide le animazioni e le suggestioni colorate) sono tenuti insieme con gusto da designer in un elegante minimalismo che non rinuncia a saziare lo sguardo, ma rifiuta le abbacinanti megalomanie dei concerti rock. Ad ancorare a terra la band è la carnalità vocale di Gahan, che sa interpretare la parte dell’istrione e si diverte come un matto a ballare, a cantare e a sfilare sul palco con il suo gilè indossato a pelle. È un mattatore classico, narciso più che si può, molto attento a non tradire gli appetiti del suo popolo. Lo show si vede è costruito sulle sue spalle con Martin Gore nel ruolo di uomo musica, mentre Andrew Fletcher fa da ponte fra i due (a completare l’organico di gra livello tecnico ci sono il batterista e il secondo tastierista, Christian Eigner e Peter Gordeno).
AUTOCELEBRAZIONEIl clima viene dettato subito con David che entra accennando dei passi di danza e dà il via a un sorta di rito autocelebrazione musicalmente intrigante. Si parte subito da Spirit, il nuovo disco con un paio di pezzi non travolgenti (specie dopo aver sentito la beatlesiana Revolution): la sinuosa Going Backwards e So Much Love. Ma i Depeche Mode, come si diceva, ci sanno fare, e allora si muovono con cautela, scegliendo solo cinque pezzi su 22 della scaletta dal nuovo album. Gli altri tre, Cover Me, Poison Heart e, naturalmente, Where’s the Revolution, che poi è il brano migliore fra i nuovi, sono distribuite in una scaletta che corre liberamente avanti e indietro nel tempo. Ecco allora Barrel of a Gun del 97 e A Pain That I’m Used to del 2006, In Your Room del 93, World in my Eyes del 90, A Question of Lust dell’86 e Home cantata e bene da Martin Gore, Everything Counts non veniva fatta live da una decina di anni e fa cantare tutto lo stadio, la ballabilissima Enjoy the Silence (e tutti inevitabilmente ballano), Never Let me Down Again dell’87 con Dave Gahan che spara delle magliette con una pistola ad aria compressa. Un rosario che ha il doppio effetto di alimentare la memoria del pubblico e di sottolineare la continuità della band, fedele al suo sound oscuro, avvolgente, sapientemente aristocratico. Un gioco sottile, ma pieno di effetti, dove le ruvidezze di alcuni testi, i temi di impegno ambientale, o gli accenni ai malesseri della nostra società, c’è perfino la scelta di rievocare un vecchio simbolo del rock eroico, il logo della pace (disegnato sulla grancassa della batteria), si mescolano alla cura maniacale degli impasti sonori, alla padronanza nel gestire l’elettronica, all’insistenza su invenzioni d’atmosfera (a volte esagerando), a qualche incursione sul fronte disco. Ne viene fuori una salsa assolutamente contemporanea, miscelata con gusto, con gran senso dello show ma che lascia il sapore freddo e ipnotico della costruzione in serie.