il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2017
Qualcosa si muove allo Strega. Non i voti, l’automobile sponsor. Matteo Nucci, uno dei finalisti della cinquina, racconta le richieste di una casa automobilistica partner del premio
Prius (che prima di un’automobile è un avverbio latino, per l’appunto vuol dire “prima”), vi diciamo che dopo svariate prove, ci siamo arresi e abbiamo scritto l’articolo che state per leggere nel classico modo: seduti. Volevamo farlo in movimento, per essere più dinamici e in sintonia con l’argomento. Ma niente, non ci siamo riusciti, nemmeno con l’ausilio musicale di quel vecchio successo di Jovanotti (Muoviti, muoviti). Tema: il premio Strega e un caso sollevato da uno dei cinque finalisti, Matteo Nucci, in gara con È giusto obbedire alla notte (Ponte alle grazie).
Sul blog letterario minima&moralia lo scrittore racconta una vicenda sulle “regole d’ingaggio” del premio. All’indomani della cinquina, l’ufficio stampa del suo editore gira a Nucci una mail della Fondazione Bellonci, in cui sono illustrate le richieste di Toyota Motor per i finalisti. La prima è scrivere un racconto fra le sei e le otto cartelle da consegnare entro il 30 giugno (quindi anche con poco tempo, visto che la cinquina viene selezionata il 15 giugno). La narrazione deve essere “partecipata, ibrida, dinamica” per raccontare “una storia in movimento”. Il viaggio che fa conoscere persone, esplorare nuovi luoghi, arricchire il proprio punto di vista sul mondo. I testi saranno online sui siti della casa automobilistica e del Premio, e pure raccolti in un volumetto stampato per un “pubblico d’eccezione”.
I cinque scrittori devono però anche rendersi disponibili per uno “shooting” di qualche ora da cui verrà tratto un “video-pillola” di 90 secondi, “una sorta di diario di bordo dei singoli scrittori in tour a bordo di una Toyota Prius”. Nessuno però aveva avvertito i candidati di queste regole d’ingaggio e Nucci ha detto no, grazie: “Scrivo i miei libri per chi voglia leggerli e non per un pubblico d’eccezione, partecipo a premi letterari per vincerli, per far leggere i miei libri. Ma cosa c’entra la visione del movimento targata Toyota?”. Scelta perfettamente legittima, visto che non era a conoscenza della possibilità di dover produrre testi per pubblici d’eccezione e sottoporsi a “shooting”.
La cosa è in sé comica, ma ancora più lo sono le precisazioni dell’azienda alla Adnkronos. Attenzione: “Si tratta di un progetto di comunicazione e non di una campagna pubblicitaria. Agli scrittori non abbiamo chiesto di essere dei testimonial, ma soltanto di raccontare la loro idea del movimento. C’è chi parlerà del movimento in termini spirituali o letterari, chi descriverà il movimento come ‘viaggio’ per realizzare il proprio libro. In ogni caso non c’è alcun vincolo da parte degli scrittori”. La Prius, intesa come macchina, sarebbe poi “un facilitatore del racconto. Non c’è alcun obbligo di usarla”. Ora la differenza tra “progetto di comunicazione” e “campagna pubblicitaria” è concettualmente troppo raffinata per essere colta. O forse, oltre a non essere abbastanza ibridi, siamo noi troppo grossier. Però ci sia concesso dire non c’immaginiamo proprio i finalisti del Goncourt posare a bordo di una Clio o il vincitore del premio Goethe su una Polo intesa come “facilitatore del racconto”.
Il premio Strega nasce anche grazie al suo sponsor: Guido Alberti, proprietario del liquore Strega (aveva fatto anche l’attore, in Otto e mezzo di Fellini, nel Decameron di Pasolini, in Mani sulla città di Rosi), era amico di Goffredo e Maria Bellonci, entrò a far parte del famoso salotto letterario e con loro diede vita, nel 1947, al premio. Che è nato con lo sponsor incorporato. Quindi nessuno stupore né nessuna puzza al naso. Solo che l’idea di mecenatismo che ci permettiamo di avere è questa: chi può, perché ha disponibilità economiche, finanzia attività artistiche perché l’intera comunità ne beneficia. Una volta bastavano i loghi dei “partner” sui manifesti o i materiali divulgativi, evidentemente la nuova frontiera dei “progetti di comunicazione” è più complessa. Ci scuserete se ci pare un do ut des (anzi, un do ut facias) poco elegante? Un po’ troppo sfacciato, e nemmeno troppo efficace dal punto di vista del marketing (gli scrittori non sono attori, farli posare, ancorché non da testimonial, potrebbe avere esiti poco soddisfacenti). Vero che – come ripete Gian Arturo Ferrari – l’editoria è uno strano mestiere perché “usa lo spirito per fare i soldi e i soldi per fare lo spirito”. Resta il tema delle posate a tavola.