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 2017  giugno 21 Mercoledì calendario

La montagna non mente, lo Strega forse

Le otto montagne di Paolo Cognetti è un gradevole romanzo all’apparenza molto normale, scritto con quelle parole semplici e insostituibili che la nostra lingua permette di scovare al prezzo di uno sforzo che in realtà è sovrumano. Non c’è alcun compiacimento costruttivo, non è che eliminando un singolo termine crollino intere strutture: ma cambia quel banale senso della comprensione che in un romanzo dovrebbe essere tutto. Dicono che il romanzo sia favorito al Premio Strega, eppure ci è piaciuto lo stesso, anzi, ci piacerebbe che vincesse assai di più di quello di Teresa Ciabatti, La più amata, considerato probabile vincitore fino a poco tempo fa e invece superato nella classifica provvisoria della cinquina finale. Comunque: quella di Cognetti è una storia di formazione palesemente autobiografica e che non avrebbe potuto essere inventata neppure col salgarismo più eclettico: solo chi ha vissuto e toccato certe esperienze montanare può raccontarle e restituirle perché si risveglino nel lettore, e beninteso, solo chi le ha dapprima addormentate può ridestarle: non c’è descrittivismo (pur efficacissimo e mai ridondante) che possa spiegare genericamente “la montagna” a chi non l’abbia vissuta un minimo, possibilmente in una fase adolescenziale della vita. 
Non è un libro da leggere in spiaggia o in barca: a meno di voler odiare l’essere lì, in spiaggia o in barca. Parentesi: pensavo queste cose mentre leggevo il romanzo e ben prima, cioè, di apprendere che l’autore è milanese (come me) e che forse fa una vita che assomiglia vagamente alla mia, anche se io per andare in montagna sono costretto ad alzarmi prima dell’alba (dalle 2 alle 3, in questo periodo) per essere di ritorno il primo pomeriggio, a fingere di lavorare. Io non ho una baita mia a 2000 metri, come Cognetti, anche se la mia guida alpina fraterna, Andrea Perrod, talvolta mi presta la sua che è a 1900 metri ed è praticamente irraggiungibile, sotto il massiccio del Bianco. Anch’io penso che «qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa», come scrive Cognetti, ma è una frase che faticherei a spiegare senza incedere in panteismi sin troppo privati. 
Posso solo dire che la montagna non è propriamente “l’ambientazione” di questo romanzo, anzi meglio, non è la “location” della narrazione: perché la montagna non accetta di fare da fondale alle miserie dell’umano, ai suoi romanzi, film o fotografie; la montagna è destinata a rubare la scena sempre pur nella sua granitica o dolomitica immobilità, è un simbolo terrestre e cosmico che fa emergere tutte le nostre carenze: perché è verticale, perché ci fa mancare la terra sotto i piedi, perché ci costringe al confronto con dei bisogni ricondotti all’osso (fatica, freddo, paura, fame, sete) e perché ci costringe a poter contare solo su noi stessi, a mettere a nudo i nostri limiti e le nostre potenzialità. La montagna non mente mai: al costo di farti scoprire chi sei veramente e chi siano veramente i tuoi compagni di cordata. Se non è questo, non è montagna: è villeggiatura, cartolina, scampagnata, parco dei divertimenti, palestra a cielo aperto, o, appunto, fondale per romanzi o film o fotografie. Cognetti dice proprio così: la montagna non è solo neve e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura. 
E poi c’è la storia, ma tutto sommato è meno importante dello spirito che l’accompagna. Molte volte, leggendo e fermandomi in fondo alla pagina di destra, ho pensato che in fondo poteva anche finire lì, magari anche senza avventurarsi nella finale e temibile parentesi nepalese ho pensato il peggio: il misticismo, la retorica delle bandierine e degli sherpa e senza la necessità di quel genere di epilogo dirompente spesso richiesto dagli editor. Comunque è la storia di due ragazzi, poi uomini, che sono cosí diversi da assomigliarsi e specchiarsi in quella “montagna” che riflette sempre l’immagine che ciascuno merita, non altre. Cognetti racconta le sue esperienze di bambino tra i monti, le sue e quelle di migliaia di noi. I ragazzi sono uno di città e l’altro autoctono, si incontrano in montagna e scoprono il valore di un’amicizia che si consolida a ogni nuova stagione (intervalli compresi) e che scorre via assieme alla vita; intanto si parla di amicizia, di padri e di figli senza alcuna ansia attualizzante, anzi, si procede ricercando il significato denso e profondo che solo i vecchi romanzi ottocenteschi sapevano restituire senza timor del banalmente “classico” e di temi ritenuti scontati come l’approcciarsi al padre, alla madre, al selvatico, all’avventura, al diventare adulti. 
I personaggi, in questo romanzo in cui non succede quasi nulla, sono tutto, e sono molto archetipici. C’è il padre del protagonista, un chimico introverso, affascinante a suo modo, ogni sera carico di rabbia come è quasi doveroso essere da cittadini sani che vivono in città; i genitori del protagonista Pietro (detto Berio, “sasso”) si sono conosciuti e innamorati e sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo, e la montagna è la loro passione fondativa. Il padre è spavaldo nel salire sul sentiero, sempre in gara con qualcosa o qualcuno, competitivo anche solo con se stesso, intriso di retorica della montagna e ansioso di firmare i libri di vetta, un uomo da sassi e rocce, dai 3000 metri in su. 
E poi c’è la madre, molto più tipicamente accomodata sui prati, nei pascoli, coi piedi immersi nel torrente, a passeggiare nei boschi, più meditabonda e scevra dalla sofferenza in cui agognare la cima, scevra da quel rincoglionimento un po’ deluso che ti prende una volta lassù, e scevra, pure, dall’angoscia di dover scendere e tornare subito a casa, scevra insomma da quell’assenza di presente che l’esperienza della scalata può rivelarsi. Una donna insomma lontana dalla «conquista dell’inutile» (doppia citazione: Herzog e Messner) e più adatta al massimo ai 2000 metri, col vizio di voler intervenire nella vita degli altri. Ma entrambi, lei e lui, i genitori, dopo essersi conosciuti sulle Dolomiti, li ritroviamo costretti a vivere a Milano e a farsi catturare dal languore meneghino che nelle giornate serene fa intravedere la Grigna e il Resegone e persino il Monte Rosa, innevati. 
Solo durante le brevi vacanze la coppia si risvegliava, più allegra e loquace. Poi, ecco, andarono a ficcarsi nel paesino di Grana (nome inventato) dove i due ragazzini coprotagonisti s’incontrano e lasciano nascere un’amicizia all’insegna di Mark Twain, che Cognetti cita direttamente. E qui succedono un sacco di cose, e nessuna. C’è l’alpeggio e la tentazione di viverci e addirittura camparci, oppure il vivere in un paesino di 14 anime senza negozi, ci sono gli ambienti, gli odori che Cognetti è molto bravo a catturare senza essere stucchevole, c’è «la gente che va a vivere in alto perché in basso non la lasciano in pace», inseguita da padroni, eserciti, preti e capi reparto. Ci sono le estati di esplorazioni e scoperte, le case abbandonate, il mulino, i sentieri piú aspri, il saper camminare in montagna come «la cosa piú simile a un’educazione che abbia ricevuto da lui», il padre. 
C’è l’estate. E c’è l’inverno, in cui la montagna non è fatta per gli uomini. Raccontare oltre significa raccontare un romanzo che non si legge, bensì come la montagna si respira.