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 2017  giugno 21 Mercoledì calendario

Qatar, l’emiro e le mucche volanti. Così l’eroe nazionale Tamim aggira l’embargo di Riad

DOHA Una mandria di 4mila mucche volanti, un ponte aereo di cosce di pollo e decine di bastimenti carichi di mele e insalata stanno riscrivendo in queste ore gli equilibri del Medio Oriente. «Guardi lo scaffale del formaggio e mi dica chi sta vincendo la guerra», ride Maryam Al Kuwari, cassiera al City center mall di Doha. I ripiani stracolmi di caciotte e tomini parlano da soli: Arabia Saudita, Bahrein, Dubai, Emirati arabi ed Egitto – con la benedizione di Donald Trump – hanno chiuso frontiere e commerci con il Qatar (reo, dicono, di finanziare il terrorismo). Ma l’embargo, finora, ha fatto flop: i banconi dei supermercati della capitale traboccano di ogni ben di Dio. Turchia e Iran hanno spedito agli assediati migliaia di tonnellate di cibo per soffiare a Riad – nei frigoriferi e sullo scacchiere diplomatico – il ruolo di partner privilegiato del Qatar. E l’America è finita in cul-de-sac da psicanalisi, divisa tra i tweet pro-sauditi della Casa Bianca e i ramoscelli d’ulivo del Pentagono. «Vede quella macchia grigia all’orizzonte? – dice Mohamed Al-Atthya, operatore del porto di Doha – Altro che embargo. È una delle tre navi della Us Navy impegnate in un’esercitazione congiunta con i nostri marinai». Non solo: i 10mila soldati statunitensi di stanza ad Al Uedid, la base a un passo dalla capitale da cui partono i bombardamenti sull’Isis, sono ancora tutti lì. E Washington – per dire la confusione che regna sotto il cielo – ha appena venduto al Qatar 36 caccia F-15. Prezzo, pecunia non olet, 12 miliardi.
La “resistenza qatarina” contro il blocco – oliata dal reddito pro capite più alto al mondo, 139mila dollari l’anno – ha due volti simbolo. Il primo è quello pop e virale di Motaz Al Kahyatt, inventore del progetto “mucche volanti”. «Quando è arrivata la notizia dell’embargo ho avuto un solo pensiero: lavorare per il bene comune», spiega. Ha dato un’occhiata alla bilancia commerciale, scoperto che il 58% dei latticini consumati da Doha arrivavano da Arabia Saudita ed Emirati e ha preso – «d’impulso», confessa – una decisione: accelerare l’allargamento della sua fattoria a Um Al Hawaya – una distesa verde nel deserto grande come 70 campi di calcio – e trasferire qui in aereo (prezzo 2mila dollari a capo) 4mila vacche Holstein. «Tutto è pronto – racconta il suo braccio destro Mazen Alsebti di fronte ai capannoni dove si stanno sistemando gli ultimi abbeveratoi -. In settimana arriveranno le bestie da Australia e Usa, a luglio il latte “made in Qatar” sarà nei supermercati».
Il vero regista del miracolo di questi giorni è però Tamim bin Hamad al Thani, che nel 2013 ha ereditato dal padre le redini dell’emirato. «Quindici giorni fa mezzo Paese rimpiangeva il papà – ammette Omar Al-Nouaimi, studente di ingegneria alla Texas A&M di Doha – oggi è l’eroe nazionale». L’opposto di quello che sperava Riad. Un adesivo con il suo ritratto in bianco e nero – con scritta patriottica “Io sono Tamim” – campeggia sul lunotto posteriore di metà parco macchine nazionale. «Lui è stato decisivo – ammette Nasser Al-Outabia, titolare del negozio Star Food in Abha street -. Quando è stata chiusa la frontiera con l’Arabia, dove passava l’85% dei nostri prodotti alimentari, ho temuto il peggio». E migliaia di qatarini in quelle ore hanno svuotato gli scaffali dei supermercati.
Il caos è durato però un paio di giorni. Poi Tamim ha schierato l’artiglieria pesante: i 330 miliardi del suo fondo sovrano. E con una pioggia di petrodollari ha ridisegnato le relazioni commerciali del Paese: l’Iran ha garantito cibo (tre navi al giorno) e un corridoio aereo per non lasciare a terra i jet Qatar Airways. I rifornimenti via mare – che prima passavano da Yebel Eli, negli Emirati – transitano ora via Oman. L’esecutivo ha coperto le spese, comprese le stalle provvisorie per 7mila cammelli e 5mila pecore espulse («sono qatarine») dall’Arabia. E questo fiume di denaro ha consentito di archiviare la crisi in una settimana. «Guardi qui: dice soddisfatto Nasser – le cosce di pollo ce le spedisce la Turchia in aereo, le banane arrivano dall’India, il latte dal Marocco, i pomodori sono made in Iran».
Doha ha vinto il primo round. La guerra del Golfo però non è finita. Il Qatar – nel mirino dei vicini per i legami con l’Iran – respinge le accuse al mittente. «Non finanziamo terroristi. Vogliamo sederci a un tavolo e parlare – spiega Sultan Al Thani, uno dei volti nuovi del governo e della famiglia regnante -. Nessuno ci ha fatto richieste precise. Salvo quella di chiudere Al Jazeera. Ma non se ne parla». Doha ha tenuto aperti i rubinetti del Dolphin, il gasdotto che porta il gas ad Abu Dhabi, mentre il Kuwait sta lavorando a una mediazione. «Un tentativo che ci auguriamo vada fino in fondo» dice il nostro ambasciatore a Doha, Pasquale Salzano.
Si vedrà. Il conto più salato alla crisi – per ora – lo pagano i 2,3 milioni di migranti (sui 2,7 milioni di abitanti) che stanno costruendo il sogno di questa penisola grande come l’Abruzzo. «Prendo 1.500 riyal (350 euro) al mese – dice nel cantiere della metro il nepalese Arvinder Minhas – e fino a ieri ne spedivo 750 a casa». L’embargo ha sballato i conti. «Il prezzo del latte è aumentato del 20%, i cetrioli del 10% e non risparmio quasi più». Tamim, che non può permettersi scollature sociali, è già corso ai ripari. Un decreto ha congelato i prezzi sui beni di prima necessità. Le eventuali perdite dei privati – grazie agli sterminati giacimenti di gas qatarino – saranno a carico dello Stato.