Affari&Finanza, 19 giugno 2017
Aramco, il tesoro del giovane principe: in gioco il destino dell’Arabia Saudita
Nei salotti di Riad c’è una parola che anche gli osservatori più esperti pronunciano guardandosi intorno con aria circospetta: Saudi Aramco. O, come tutti dicono qui, semplicemente Aramco. Sollevare dubbi sul progetto di privatizzare la cassaforte del petrolio saudita di questi tempi equivale ad attaccare il cuore stesso del potere del regno, quel principe Mohammed Bin Salman, 31 anni, figlio favorito del re e vice erede al trono, intorno al quale tutto si muove. Sarà per questo che di voci contrarie all’Ipo prevista per il prossimo anno ufficialmente se ne trovano ben poche. Eppure quando si passa nei circoli chiusi, e ancor più su Twitter – “il vero parlamento in questo Paese” come dice un consigliere della famiglia reale – le critiche non mancano: negli ultimi mesi gli hashtag “La gente è contraria alla vendita di Aramco” e “Mohammed vende la gallina dalle uova d’oro” spopolano. Segno di un Paese che guarda all’appuntamento con ansia e preoccupazione.
Annunciata nel 2016 da Mohammed Bin Salman (MBS, come tutti lo chiamano qui), la quotazione di Aramco si annuncia come la più grande della storia delle Borse mondiali, superiore a quella di giganti come General Electric, Exxon o Apple. Sul mercato, secondo le intenzioni del principe, finirà il 5% della società: i ricavi andranno in un fondo sovrano e saranno re-investiti in Vision 2030, il piano di rinnovamento dell’economia e della società voluto dallo stesso principe per tagliare la dipendenza del Paese dal petrolio e traghettarlo verso il futuro.
Il legame diretto fra l’Ipo e il futuro del regno è cruciale per capire i tanti interrogativi che circondano un’operazione destinata ad avere impatto sui principali listini mondiali e sui destini delle grandi società petrolifere internazionali. Fondata nel 1933 come joint venture fra il governo saudita e la californiana Standard Oil, e a lungo controllata dagli americani, Aramco passò progressivamente sotto il controllo saudita negli anni ’60 e ’70, fino a diventare ufficialmente un gruppo statale negli anni ’80.
Sin dalle sue origini, il gruppo è stato la gallina d’oro dell’Arabia Saudita, lo strumento che ha consentito a un regno nel deserto di trasformarsi nella maggiore potenza della regione e a una dinastia controversa, come gli Al Saud, di regnare ininterrottamente sul Paese per 90 anni. Con 10 milioni di barili estratti ogni giorno (più del doppio rispetto a Exxon), una quota della produzione globale del 10%, i costi estrattivi più bassi, le riserve petrolifere più vaste del mondo (261 miliardi di barili, contro i 13,2 di Exxon) e un contributo alle entrate statali pari al 70%, Aramco è parte imprescindibile dell’Arabia Saudita di oggi, con interessi che vanno dalle costruzioni alla sanità, passando per le corse di cammelli e il settore alimentare. Per la sua “gallina dalle uova d’oro” Mohammed bin Salman si aspetta una valutazione complessiva di 2mila miliardi di dollari ma le stime degli analisti sono molto più prudenti: 1.500 miliardi al massimo. Cosa che ridurrebbe sensibilmente la quantità di denaro disponibile per i progetti dell’ambizioso principe.
Centrale nella questione della stima è “come” Aramco arriverà sul mercato: ma questo è un punto su cui a Riad anche coloro che sono direttamente coinvolti nella quotazione non hanno risposte chiare. Nei mesi scorsi era circolata l’ipotesi di una fetta di azioni riservata ai sauditi e destinata ad andare sul mercato a prezzi ridotti. “È probabile che accada qualcosa di simile “, spiega Jim Krane, fellow for Energy studies presso il Baker institute della Rice university di Houston e fra i massimi esperti della geopolitica energetica del Golfo. “Negli ultimi due anni i sauditi hanno dovuto accettare una politica di austerity senza precedenti a causa del crollo del prezzo del petrolio: sono saliti i prezzi della benzina, dell’acqua e dell’elettricità. I sussidi statali sono stati tagliati e per la prima volta nella storia del Paese sono state imposte tasse: moltissime persone hanno fatto il parallelo fra queste misure e l’Ipo. MBS si prende Aramco e a noi lascia le tasse, dicono. La famiglia reale dovrà trovare qualche forma di compensazione “. Il problema di questa scelta è che ridurrebbe ulteriormente il valore della quotazione.
Altra questione aperta è quella di quale parte della società andrà sul mercato: “Quelli che si oppongono alla quotazione – insiste Krane – sostengono che le riserve petrolifere non appartengono ad Aramco ma al Paese, comprese le generazioni future: e per questo non dovrebbero essere messe a rischio. Così Mohammed si è affrettato a dire che saranno escluse dalla quotazione. Ma non ha spiegato cosa sarà invece incluso”.
La separazione dei diversi rami del business e la trasparenza dei conti sono fra le questioni che stanno dando i mal di testa peggiori a quelli che lavorano sulla quotazione: solo dimostrando di essere realmente indipendente dallo Stato e non un’entità destinata a finanziare di tutto, dai concorsi di bellezza per cammelli alle università come è stato finora, Aramco potrà competere nel portafoglio dei grandi investitori con gli altri giganti del petrolio già presenti sui mercati, da Exxon Mobil a Royal Dutch Shell. “Questa è una delle sfide maggiori che stiamo affrontando – spiega uno dei banchieri coinvolti nell’Ipo, costretto all’anonimato dalle rigide regole saudite – i nodi da sciogliere sono ancora molti ma sono certo che i bilanci saranno pronti in tempo. MBS vuole vedere Aramco in Borsa nel 2018. Tutti sanno che questa operazione è monitorata direttamente da lui e nessuno ha intenzione di deluderlo”.
Per mettere a tacere le critiche, qualche settimana fa Mohammed bin Salman ha concesso una rara intervista tv, in cui ha definito “comunisti” e “arretrati” coloro che si oppongono alla privatizzazione. Il principe ha poi ribadito le ragioni che sono alla base della sua scelta: con un’economia dipendente per oltre l’80% dal petrolio e dai suoi derivati, il prezzo del barile crollato del 50% nel giro di tre anni e un deficit che nel 2015 ha toccato la cifra record di 98 miliardi di dollari, l’Arabia Saudita non può più permettersi di restare ferma. “La quotazione non è solo una questione economica – conclude l’anonimo banchiere – il governo potrebbe raccogliere soldi emettendo bond o in altre maniere. Ma l’Ipo è parte di un progetto più grande, una vetrina per dire al mondo che questo è un Paese moderno, finalmente pronto ad aprirsi e ad accogliere investimenti stranieri. Per questo nulla la metterà in discussione”.