Dieci anni di Repubblica, 15 luglio 1977
«Mi chiamo Berlusconi e voglio fare carriera»
La razza forse non si è estinta. Parliamo della razza imprenditoriale di stirpe meneghina, intraprendente, ottimista, vogliosa di fare. Con l’aria che c’è in giro temevo di non trovarne neppure più un esemplare in piena vitalità, ma solo pochi sopravvissuti, stremati a colpi di statuto dei lavoratori, crack del Crédit Suisse, (1) pretori d’assalto, crisi della domanda e stretta bancaria. I primi test della mia incursione fra gli industriali milanesi erano risultati catastrofici. Uno dei rampolli, un tempo fra i più intraprendenti, di un’illustre dinastia industriale, alla fine di uno sfogo desolato, aveva concluso: «Sa’ che ci dico: il management è completamente scoglionato!». E su questa battuta l’intervista si era chiusa. Un altro, uno dei re del tessile che fino a ieri invadeva il mondo con la sua celebre biancheria, nel solito scambio di «come va?» «bene, e lei?», era sbottato: «A me va malissimo. Lei mi comprerebbe un paio di lenzuoli? Nessuno sembra volerne più».
Poi per fortuna, abbiamo incontrato il Berlusconi Silvio, costruttore di città-satelliti e sistemi urbani in Italia e all’estero, tycoon di ceppo ambrosiano purissimo, persino nel cognome, pieno d’inventiva, di amore del rischio, di soldi («è il più ricco di Milano» ci aveva confessato con visibile invidia un ex miliardario «en perte de vitesse»). Inoltre non è uno di quegli industriali «tutto azienda e barca a Santa Margherita»: da imprenditore lungimirante non trascura i giornali, la tv, la politica. Come Ugo Foscolo con la contessa Pallavicini caduta da cavallo, dicono sia corso a baciar la mano a Montanelli ferito. Non era però solo un gesto di affettuosa solidarietà personale: con una partecipazione del 12% nella proprietà e con l’impegno profuso per trovargli altri sostegni, Berlusconi è oggi il punto di forza del Giornale Nuovo.
Confesso che tutte queste premesse mi facevano presagire un incontro non con il capofila di una nuova classe di manager, ma con il prototipo stranamente sopravvissuto di un’epoca superata, un Borghi anni ’50, rispuntato per caso. E paventavo la classica intervista col «cummenda» che spara a zero contro i partiti, Roma, i sindacati, i capelloni, le Brigate Rosse di Berlinguer e così via. Ma mi sbagliavo.
La prima sorpresa mi attendeva a Milano 2, il quartiere-satellite che Berlusconi mi aveva pregato di visitare prima del colloquio. Mi aspettavo uno di quegli osceni complessi recintati, orgoglio dei palazzinari romani, e aspirazione dei benestanti di mezza tacca. Invece mi sono trovato, all’improvviso, non nella periferia milanese ma in Olanda: un bellissimo centro aperto in mezzo al verde, tutto concepito attorno ad un triplo sistema veicolare (pedoni, biciclette ed auto) con le macchine che non incrociano mai i pedoni, ma passano incassate dietro le case per infilarsi nei parcheggi sotterranei. E sopra piscine, negozi, campi da gioco e scuole tra i prati, aperte anche ai bambini del comune rosso di Segrate. Naturalmente si tratta di edilizia tutt’altro che popolare, anche se i progetti in corso per altre città-satelliti sono concepiti per costruzioni prefabbricate a costi assai più ridotti («possiamo ormai fare la scocca della casa, e montarla come un’automobile; è il metodo che applicheremo al quartiere di Basilio, per 10.000 persone» mi dirà poi nel corso dell’intervista).
L’incontro avviene, però, al centro di Milano nella ex villa Borletti, oggi casa di rappresentanza delle società Berlusconi (simbolo anche questo di una ben determinata scalata sociale con le sue feroci sostituzioni). Il personaggio è tutt’altro che spiacevole. Quarantenne, aperto, accattivante dimostra di aver fatto le sue letture, porta i capelli lunghi, raccoglie quadri del Quattro e Cinquecento. Debolezze apparenti: ci tiene a far sapere che è il più giovane cavaliere del lavoro («purtroppo nella stessa infornata di Caltagirone (2) ») e veste con una ricercatezza un po’ dubbia, tutto di marrone, dagli stivaletti alla cravatta e al fazzoletto al taschino. Anche l’autista ha una divisa marrone e berretto marrone, dev’essere una manìa.
Nella mappa del potere imprenditoriale lei sta prendendo il posto lasciato vacante da famiglie e uomini fino a ieri potenti e combattivi. Come giudica questo passaggio di mano?
«Io sono un prima-generazione. Ho decollato come industriale attorno al ’60, senza conoscenze, appoggi, aiuti. Mi è andata bene. Gli altri? Vuol sapere perché son finiti così? Perché hanno perduto l’orgoglio della dinastia imprenditoriale. Era facile diventare ricchi ai loro tempi, col basso costo del lavoro e non pagando le tasse. Quando hanno sentito arrivare la crisi, hanno portato i capitali all’estero e si sono fermati. Non mi riconosco certo in una generazione che ha preso 1500 miliardi dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, tirandone fuori questo bel capolavoro della Montedison. Ma facciano il piacere: erano dei ragionieri, altro che degli industriali!».
Cosa l’ha spinta ad interessarsi di politica e a comprare una quota del Giornale?
«Circa due anni fa mi accorsi che la situazione esterna mi era sfuggita di mano. La classe inprenditoriale stava a guardare. Così sono entrato nel Giornale. Sentivo l’esigenza di conservare una pluralità di voci, col Corriere. Il Carlino e la Nazione che andavano sempre più a sinistra. Inoltre il mondo dell’informazione mi ha sempre appassionato ed ora è come se assistessi alla partita seduto in panchina accanto a Rocco (3) ».
Lei si identifica con il disegno politico del Giornale?
«Non c’è un disegno politico, dopo che il tentativo dell’alleanza laica è fallito. Per me la funzione del Giornale è importante perché è controcorrente, anche se vorrei che Montanelli, Zappulli o Bartoli non ci spiegassero solo che va tutto male, ma facessero anche proposte concrete».
Interviene mai per correggere la linea del quotidiano?
«Non ho velleità di questo tipo, anche se qualche seme di quello che dico rimane».
Come giudica l’accordo per una nuova maggioranza?
«Nel documento si trovano tante belle risposte scolastiche da cui nessuno può dissentire, ma quando si va al concreto vengono fuori le contraddizioni».
Teme il Pci al governo?
«Ognuno deve fare la sua parte. E il Pci ha un compito da svolgere all’opposizione, se non si vuol lasciare campo libero all’estremismo di sinistra. Per andare al governo non bastano solo le attestazioni di fede democratica. Oggi il Pci è un partito diviso: la base è ancora affascinata dal modello sovietico e sogna pane e cipolla per tutti. Aspettiamo che diventino tutti socialdemocratici davvero, poi potranno andare al governo».
Allora lei è d’accordo coi De Carolis? È di quegli industriali che sognano non pane e cipolla ma un partito capeggiato da Montanelli?
«Niente affatto. De Carolis se ne stia a destra, che è il posto suo. E gli industriali che dice lei ci sono solo a Bologna, dove hanno fatto un gruppetto; quanto a Montanelli resta, comunque, un uomo assolutamente indipendente».
Ma, insomma, lei politicamente come la pensa?
«La vera alternativa è nella Dc, una Dc che si trasformi in modo da permettere al Psi di tornare al governo. Vede io sono un pratico, ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica, senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile».
Ha già trovato personaggi di questo tipo?
«La realtà locale sta cambiando, soprattutto in Lombardia e a Milano dove un uomo di gran valore come Mazzotta ha conquistato la federazione dc, coagulando la sinistra anticomunista della Base e di Forze Nuove, la Coldiretti, Comunione e Liberazione. Altre forze si ritrovano attorno ad uomini come l’on. Usellini, un industriale che si è impegnato nella politica sull’esempio di Agnelli, come Mario Segni, come il ministro Pandolfi. Sono politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente, e non come Moro che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo. Questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta. Lo stesso discorso vale per il Pri, per il Psi, per i liberali».
Come pensa di impegnarsi a favore di queste forze?
«Non certo pagando tangenti ma mettendo a loro disposizioni i mass-media. In primo luogo Telemilano che sto riorganizzando e che diventerà un tramite fra gli uomini politici che dimostreranno di non aver divorziato dall’economia e dalla cultura, e l’opinione pubblica. Una Tv che non rifletterà le stesse posizioni del Giornale, ma avrà un contenuto molto più positivo e meno angosciante. Tenderemo a presentare soluzioni concrete e possibili».
Ma, insomma, lei vuol fare l’imprenditore o l’eminenza grigia del rinnovamento dc?
«In primo luogo l’imprenditore, anche se ritengo già di far politica, facendo bene il mio mestiere e creando, ad esempio, centri dotati di servizi primari superiori alle esigenze degli insediati. Quanto all’impegno politico vero e proprio, ebbene parliamoci chiaro: o la famiglia-Italia esce dal baratro in cui sta finendo o non ci saranno più imprenditori. La mia è una scommessa, perché oggi qualsiasi utile uno pensi di fare non riuscirà mai a ripagare il costo del denaro. Alcuni miei soci dicono che faccio dei discorsi da matto perché ho deciso di dare il via al centro di Milano 3, pur sapendo non solo che non ci sarà utile, ma che andremo alla pari solo se riusciremo a vendere tutto entro sei mesi dalla fine dei lavori. Ho altri cinque progetti fermi da anni in attesa dei permessi che non arrivano mai. Nel documento della nuova maggioranza si fa un bel parlare di rilancio dell’edilizia. Tutto giusto, ma poi vien fuori la legge Bucalossi che ti alza gli oneri aggiuntivi dal 5 al 20%, mentre il costo delle costruzioni è triplicato, le spese di urbanizzazione gravano per 40 mila lire al metro cubo, gli interessi ti portan via il 20-25%. Come si fa a non impegnarsi per cambiar politica? Anche se uno come me ormai investe solo per cuore, passione, inventiva. Scelga lei».
Note: (1) Il Crédit Suisse aveva investito 800 miliardi di lire (capitale in gran parte affluito dagli esportatori clandestini italiani) in attività ad altissimo rischio. La banca fidava in un flusso costante di valùta da parte degli italiani, ma quando le restrizioni valutarie imposte dal nostro governo bloccarono l’emorragia non fu più possibile nascondere il fatto che molti degli investimenti tentati dal Crédit (specie dalla filiale di Lugano e dalla fiduciaria Texon) avevano avuto esito negativo. (2) I fratelli Francesco e Gaetano Caltagirone, costruttori romani. Dei miliardi ottenuti dall’ltalcasse (uno scandalo dal quale sono usciti assolti) si cominciava a parlare proprio allora. (3) Nereo Rocco, consigliere tecnico della squadra di calcio del Milan.