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 2017  giugno 20 Martedì calendario

L’industria è roba da museo (del futuro)

«In fondo il mio trisnonno ha fondato una start up». Quello dell’attuale presidente di Fca, John Elkann, può apparire un paradosso. Siamo ormai abituati a considerare l’industria, in particolare la manifattura, come il simbolo del secolo scorso, espressione di un mondo basato sulle connessioni relativamente lente della meccanica, oggi sostituite da quelle ben più veloci dell’elettronica. «Al contrario – osserva Walter Barberis – l’industria è saper fare, saper costruire. L’industria è cultura». Nasce così l’idea di un museo dei musei industriali, un collegamento virtuale tra le centinaia di raccolte di storia aziendale sparse in Italia.
«Un’occasione, anche, per tornare a riflettere sulla prospettiva dello sviluppo», dice Barberis. Il presidente della casa editrice Einaudi ha presentato il progetto nei mesi scorsi al Consiglio generale della Compagnia di San Paolo. L’idea che lo studio dell’evoluzione dell’industria in Italia possa servire a riflettere sul nostro futuro è abbastanza originale: «Se davvero la nascita di un museo della cultura industriale e del lavoro in Italia verrà considerata una proposta controcorrente, non potrò che esserne fiero», confessa.
Non siamo, da tempo, immersi in una cultura dello sviluppo. Il discorso pubblico, anzi, è piuttosto costellato di proposte e suggerimenti per difendersi dalle conseguenze di quello che con qualche ingenuità nell’Italia degli anni Sessanta si chiamava progresso. E l’industria è considerata spesso il simbolo in negativo di quel mondo. I musei della storia industriale italiana finiscono per confermare involontariamente quella impressione. Raccontano sovente una mentalità lontana anni luce dalla nostra. Negli archivi del Cinema d’impresa di Ivrea è custodita la pellicola aziendale che testimonia la costruzione dell’Italsider di Taranto, l’attuale Ilva. Il salto è impressionante. Quello che oggi è considerato un mostro da cui difendersi era presentato come «il nuovo stabilimento che darà lavoro e prosperità a una terra fino ad oggi sonnolenta, costellata solo di ulivi secolari che ora vengono sradicati per fare spazio al nuovo mondo».
Distanze incolmabili. Ricorda Sergio Toffetti, direttore dell’archivio di Ivrea, la parabola di Bernardo Bertolucci che iniziò a girare producendo brevi film aziendali per l’Eni: «Quando il maestro ricevette a Venezia il Leone alla carriera, proiettammo nella serata d’onore un film da lui girato nel 1947. Si intitolava Le vie del petrolio e glielo presentammo in anteprima. Lui ci guardò e disse un po’ stupito: “Siete sicuri che non stiamo per fare una cazzata?”». La sensibilità ecologista ha reso quasi incredibili molte delle produzioni culturali realizzate per l’industria nel Novecento italiano. Bertolucci non fu l’unico regista a lavorare per le aziende. Un giorno un giovane dipendente della Edison chiese all’azienda l’acquisto di una cinepresa per riprendere una gita aziendale. Gita sociale in Val Formazza è stata una delle prime produzioni di Ermanno Olmi.
«Episodi che dimostrano quanto l’industria abbia permeato di sé la cultura italiana», sottolinea Barberis. Che propone di riconnettere la storia industriale italiana alla storia culturale del Paese. «Faccio un esempio che vale almeno in tutte le realtà in cui la manifattura ha trasformato i nostri territori. Prendiamo il caso del territorio torinese. Per secoli l’eredità culturale è stata quella del Barocco piemontese nel centro di Torino e nella corona di regge sabaude che circonda la città. Dalla fine dell’Ottocento è venuta costituendosi una specie di terra di mezzo che abbiamo cominciato a chiamare periferia industriale. Quella zona ha finito per legare il centro della città ai confini delle regge. In quello spazio per centocinquant’anni non si sono creati solo prodotti. Si è sedimentato sapere, si sono creati modelli culturali. Perché non valorizzarli?» Una proposta che non riguarda solo il passato: «Accanto al museo per ora virtuale che collega i musei industriali d’Italia – conclude Barberis – andrebbero aggiunte due iniziative di carattere seminariale. Una sorta di forum rivolto alle scuole sulla cultura industriale. E una iniziativa di studio in collaborazione con gli imprenditori per progettare la nuova imprenditoria».
Il primo lavoro da fare sarà quello di censire i materiali presenti nei musei dell’industria. Quelli rappresentati da Musei Impresa, associazione sostenuta da Assolombarda e Confindustria, sono 67. Hanno dimensioni diverse legate all’importanza delle aziende. L’archivio Benetton di Ponzano o la Fondazione Pirelli di Milano come l’archivio storico Barilla di Parma raccontano interi pezzi della storia italiana. Hanno un peso ancora maggiore vere e proprie istituzioni museali come il museo storico Fiat di Torino che documenta l’evoluzione italiana dal 1910 a oggi. Altrettanto si può dire per l’archivio Olivetti di Ivrea. Mettere in rete questo materiale significa anche promuovere la riflessione sull’evoluzione futura dell’industria. Spesso lo storico Giuseppe Berta, che partecipa questa mattina a Torino a un convegno al Polo del Novecento sui musei d’industria, ricorda che «in Italia non c’è una cultura d’impresa paragonabile a quella degli Stati Uniti», dove in alcune aree industriali le visite alle fabbriche sono comprese nei pacchetti turistici. La sfida, forse, è evitare che si crei lo stesso gap anche quando arriverà l’industria 4.0, quella che rivoluzionerà il modo di produrre con le macchine intelligenti.
Nel 1947, mentre Bertolucci girava per l’Eni Le vie del petrolio, a Benevento l’industriale Guido Alberti, istituiva con l’amica Maria Bellonci un premio letterario dedicato al liquore di sua produzione. Le origini del premio Strega sono ancora oggi raccontate nel museo aziendale della città campana. Un pezzo di cultura industriale in tutti i sensi.