Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  giugno 20 Martedì calendario

Mafia Capitale, la difesa di Carminati alza il tiro sulla Procura

«Questo è un processo di stampo stalinista, dove si processa una persona per quello che è, non per quello che ha fatto; i pubblici ministeri hanno violato le regole offendendo avvocati e giudici; hanno mortificato lo Stato di diritto, e lo Stato che rappresentano». Al processo chiamato «Mafia Capitale» l’ultima arringa è riservata ai difensori dell’imputato principale, Massimo Carminati. Una difesa che gioca all’attacco, com’era prevedibile dall’atteggiamento tenuto durante un anno e mezzo di dibattimento e l’inedito interrogatorio a cui ha accettato di sottoporsi l’ex estremista nero accusato di essere il capo della presunta associazione mafiosa, per il quale i pm hanno chiesto la condanna a 28 anni di carcere. Le parole dell’avvocato Ippolita Naso – a cui la prossima settimana si aggiungeranno quelle di suo padre Bruno, difensore di Carminati fin dagli anni «di piombo» – rivelano una strategia che mira a delegittimare l’accusa e ridurne le conclusioni a «un teorema costruito a tavolino» attraverso tre anni di intercettazioni ininterrotte: «Il pm infila le cuffie e aspetta – ammonisce l’avvocata Naso —, perché grazie a questa subdola intrusione nella vita privata di un libero cittadino, prima o poi si alzerà il velo su qualche debolezza, indecenza comportamentale, tradimento, maldicenza che quando viene trascritta ed entra in un atto giudiziario non lascia scampo».
Per esempio le «affermazioni cretine di uno spaccone romano» come Carminati, continua il suo difensore, quando diceva «mo’ a quello lo famo strillà come un’aquila sgozzata». E in tante altre occasioni. Chiacchiere da bar e niente più; «criminalizzazione della banalità». Utile però a sostenere «il teorema della mafia a Roma». E qui la difesa punta il dito sul procuratore Giuseppe Pignatone, il siciliano approdato nella capitale dopo trent’anni spesi tra Palermo e Reggio Calabria a contrastare Cosa nostra e ‘ndrangheta: «Prima del suo arrivo nessuno aveva accertato niente di tutto ciò che ci hanno raccontato in quest’aula. Con lui la Procura ha creato ad arte un “contesto”, ingrediente necessario in ogni processo di mafia, e poi ha trovato il protagonista».
Un lavoro da «pm sceneggiatori». E la storia dell’indagine su Mafia Capitale altro non sarebbe che «la narrazione della storia criminale» di Massimo Carminati, alimentata e enfatizzata da articoli di giornale, romanzi, film e sceneggiati tv: «Avete trasformato la percezione in realtà», si lamenta l’avvocata Naso, sottolineando come tra i pm del processo non ci sia nemmeno un romano d’origine in grado di comprendere sfumature e atteggiamenti tipici di certi ambienti malavitosi della città. Tuttavia anche questa sembra una «narrazione», presa a prestito dai detrattori dell’indagine che proprio sui giornali e in tv hanno usato lo stesso argomento (insieme ad altri) per provare a ridurre tutto una banda di usurai «alla vaccinara» riunita intorno a una pompa di benzina.
C’è poi il problema di una pronuncia della Cassazione che dopo gli arresti ha confermato l’ipotesi dell’associazione mafiosa. Ma per i difensori di Carminati non sembra un problema: «Quella sentenza fu emessa nel momento di massima tensione reale e mediatica, ed è stato un atto di fede quasi obbligato verso dei pubblici ministeri». Ricostruzione non proprio lusinghiera nei confronti della corte suprema, che fa affiorare il paradosso di un’arringa studiata per attaccare i pm a presunta salvaguardia dei giudici (oltre che dell’imputato), ma finisce per risucchiare nella stessa accusa anche i giudici.