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 2017  giugno 20 Martedì calendario

Il petrolio e il futuro delle élite mediorientali

Tra il 2014 e il 2016, le entrate dei Paesi mediorientali che esportano petrolio sono scese in media di un po’ più di un terzo – circa il 15% del loro Pil – e le loro partite correnti sono passate da eccedenze a deficit a due cifre. Malgrado un recente piccolo rialzo, dalla maggior parte delle previsioni risulta che i prezzi petroliferi resteranno ai livelli attuali a lungo. Se così accadrà, ciò assesterà un colpo macroeconomico di dimensioni tali da modificare drasticamente tutto il Medio Oriente. La maggior parte dei Paesi produttori di petrolio ha già iniziato a tagliare le spese, contrarre prestiti e utilizzare le proprie riserve. Ma i Paesi molto indebitati con l’estero, che hanno riserve modeste o un pesante deficit si sentiranno sempre più alle strette dal punto di vista finanziario e saranno in grande difficoltà, se già non lo sono. Il basso prezzo del petrolio avrà pesanti conseguenze per Algeria, Bahrein, Iraq, Iran, Oman, e così pure per Libia e Yemen già lacerati dalle guerre. In definitiva, però, il destino economico di ciascuno di questi Paesi dipenderà dalle scelte che essi effettueranno oggi.
I produttori di petrolio possono fare due cose: tagliare i consumi o mantenerli come sono, ottimizzando la loro produttività. Ogni produttore preferirebbe la seconda alternativa, ed è per questo che i governi della regione stanno diversificando le loro economie. L’intera regione è in condizioni migliori oggi per far decollare la crescita di quanto non fosse negli anni 90, grazie agli investimenti nell’istruzione e nelle infrastrutture. Tuttavia la loro strategia di crescita dovrà anteporre le riforme strutturali alla stabilizzazione macroeconomica. Resta opinabile il fatto che i governi regionali siano una buona volta decisi a fare sul serio al riguardo delle riforme, tenuto conto che durante il boom petrolifero del periodo 1973-1985 i governi locali hanno preso capitali in prestito per evitare di fare le riforme e quando la bolla petrolifera è scoppiata sono precipitati in una crisi del debito. A molti di questi Paesi non è rimasto altro da fare che tagliare le spese e accettare un decennio di crescita anemica.
Da allora i governi di tutta la regione sono ricorsi a una repressione brutale per tenere a bada lo scontento popolare e mettere fuori gioco gli oppositori politici.
Come negli anni Ottanta, i governi della regione oggi hanno collegato i proventi petroliferi alla concessione di aiuti per i consumi. Quando le riforme strutturali si rendono necessarie,i regimi di questi Paesi preferiscono che assumano la forma di tagli fiscali, più che di riforme strutturali e questi tagli per lo più colpiscono gli investimenti pubblici, a discapito delle prospettive di crescita. Adesso che i prezzi petroliferi ristagnano, gli investimenti privati sono crollati, le aziende locali lavorano al minimo e la disoccupazione è in aumento.
Ma c’è qualcosa di ancora più importante: i governi dei Paesi produttori oggi devono affrontare un dilemma politico. Una crescita economica più robusta, benché auspicabile, esige regimi che sappiano accollarsi rischi che potrebbero mettere a repentaglio la loro stessa sopravvivenza. Per staccare i ricavi petroliferi dai sussidi pubblici serve un nuovo contratto sociale, basato sull’autonomia individuale.
I governi della regione hanno manifestato la tendenza a favorire le aziende con connessioni politiche, ostacolando quelle che considerano una minaccia. Questa pratica ha ostacolato la concorrenza, distorto i prestiti bancari, rallentato il dinamismo economico, pur aiutando i dittatori a restare al potere. Questo sistema si è ancor più radicato dopo le Primavere arabe, dato che i governi sempre più di frequente hanno dovuto comprare consenso politico. Alcuni governi avranno la tentazione adesso di attenersi allo status quo, sperando in una risalita dei prezzi petroliferi: nel frattempo opprimeranno con maggior durezza la società civile. Se ciò avvenisse, la situazione potrebbe degenerare. I popoli della regione si sono abituati a livelli più alti di spesa pubblica, e lo scontento delle Primavere arabe non è mai scomparso del tutto.
I governi che opteranno per la strada delle riforme avranno bisogno non soltanto di coraggio, ma anche di politiche ben congegnate. Nella maggior parte dei Paesi mediorientali, la partecipazione al mercato del lavoro della manodopera è tra le più basse al mondo, mentre il rapporto tra energia e attività produttiva è tra i più alti. Per migliorare la produttività preservando la stabilità sociale, si dovrebbero eliminare i sussidi allo scopo di migliorare l’efficienza, e non procedere soltanto a colpi di tagli fiscali. E si dovrebbe instaurare un sistema di trasferimenti che stimoli gli investimenti invece dei consumi.
Per crescere ed espandersi, il settore privato in Medio Oriente dovrà ricevere un sostegno duraturo e attivo dallo Stato. Oltre a ciò, per gestire economie miste che hanno sia aziende statali sia un settore privato a uno stato ancora embrionale è indispensabile disciplina, così che gli asset produttivi non vadano sprecati o siano privatizzati a prezzi da svendita. Gli squilibri esterni costituiranno il pericolo più grande. La flessibilità del tasso di cambio non è auspicabile, e instaurare controlli sulle importazioni o sui cambi esteri porterebbe a generare corruzione. Comunque, alcuni Paesi potrebbero avere un margine sufficiente ad aumentare le tariffe doganali su alcuni beni di consumo. Se oltre a ciò riusciranno a sviluppare le fonti di energia rinnovabile moltiplicando i loro sforzi di conservazione, riusciranno ad aumentare l’export di energia.
È difficile prevedere ciò che i bassi ricavi petroliferi implicheranno per il Medio Oriente. Le élite regionali potranno optare per il cambiamento o andare incontro a un rapido declino. Il tempo delle scelte si sta esaurendo.
Ishac Diwan è membro del Belfer Center’s Middle East Initiative di Harvard
(Traduzione di Anna Bissanti)
Sul nostro sito la versione completa dell’articolo di Diwan